OTTIMISTA.DIECI ANNI FA VOLEVAMO TUTTO, OGGI SAPPIAMO COME OTTENERLO!

LAYLA RIAHI

di ARIANNA POLETTI

” In Tunisia la ricchezza non se la spartisce la società ma viene accumulata dall’oligarchia”

Dieci anni dopo il 2011, la Tunisia continua a scendere in piazza. Ma le rivendicazioni evolvono, la società civile è sempre più consapevole. L’intervista a Layla Riahi, militante per i diritti economici e sociali.

Architetta di formazione, oggi insegnante alla scuola di architettura di Tunisi, Layla Riahi prova a disegnare un progetto alternativo per il proprio Paese. Si interroga sulla stabilità delle sue fondamenta. Studia, analizza e interpreta le dinamiche economiche locali e regionali, misurando l’impatto sociale delle politiche neo-liberiste sulla Tunisia post rivoluzionaria. Più che definirsi “attivista”, si dice “militante“ per il diritto dei cittadini tunisini ad una vita dignitosa. Per lei, è cambiando la direzione delle politiche economiche che la Tunisia otterrà i diritti sociali e civili reclamati dai tempi della rivoluzione.

Durante i dieci anni trascorsi dalla thawra (rivoluzione ndr) del 2011, secondo Layla Riahi la società civile tunisina ha compreso le ragioni profonde del proprio malessere e identificato nell’oligarchia politica ed economica che tiene strette le redini del Paese il nemico della maggioranza. Dopo aver partecipato a diverse campagne di protesta come Manish Msamah (noi non perdoniamo) nel 2017 e alla fondazione dell’Osservatorio Tunisino dell’Economia, Layla Riahi è oggi tra gli ideatori della “Piattaforma delle Alternative“, un’organizzazione nata durante la pandemia per cercare, come lascia intendere il nome, un’alternativa per la Tunisia di domani.

Perché hai scelto di focalizzare la tua azione militante su questioni prettamente economiche?

Non ho scelto io di criticare un modello economico insostenibile, ma i movimenti sociali iniziati nel 2010: le proteste chiedevano un cambiamento di paradigma. Allora si trattava di una mobilitazione spontanea, non controllata. Né i partiti politici né i sindacati sono stati pronti ad accompagnare il movimento popolare. La principale rivendicazione della rivoluzione era -ed è tuttora- il cambiamento di modello economico, un modello che non è specifico alla Tunisia ma comune a diversi paesi a sud del Mediterraneo (come lo sono stati i movimenti sociali). Se le radici dell’attuale modello economico affondano nel periodo coloniale, dopo l’indipendenza prima Bourguiba e poi Ben Ali hanno spinto verso una maggiore liberalizzazione, verso gli investimenti stranieri, verso una produzione destinata essenzialmente all’esportazione. Hanno abbandonato i settori “naturali” come l’agricoltura, l’artigianato, il commercio e la produzione locali con l’obiettivo di favorire l’integrazione della Tunisia nel tessuto economico mondiale, in particolar modo in quello europeo. Quello che viviamo oggi è il risultato diretto di questo processo, oggi orientato ed implementato direttamente In Tunisia la ricchezza non se la spartisce la società ma viene accumulata dall’oligarchia da quelle istituzioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale. Le conseguenze sono politiche e sociali.

Come descriveresti il modello economico tunisino, le sue specificità e i suoi attori? E perché lo definisci insostenibile?

I primi passi in questo senso sono stati mossi da Habib Bourguiba che ha favorito l’estrattivismo, un settore importante già durante il periodo della colonizzazione francese. Bourguiba ha poi assunto sempre più funzionari pubblici, abbassando di conseguenza i loro salari. Gli stipendi sono rimasti bassi. Oggi sono così bassi da rappresentare un vantaggio comparativo rendendo la Tunisia Paese di delocalizzazione. Un insegnante non può vivere degnamente senza dare ripetizioni private, perché il suo stipendio non è sufficiente. Le scelte economiche di quegli anni hanno impoverito le regioni interne. Il mondo rurale, migrando verso le città della costa, ha dato vita alle periferie e alimentato il lavoro informale. Il risultato è che il 50% della nostra economia è tuttora informale, mentre l’economia formale è orientata dallo Stato verso il mercato delle esportazioni. Questo modello non permette di creare nuovi posti di lavoro e situa la Tunisia in fondo alla catena di creazione del valore. Così ci ritroviamo a importare abiti già pronti per cucire un bottone prima di esportali nuovamente. L’altro meccanismo su cui si fonda il capitalismo tunisino è quell’insieme di relazioni tra uomini d’affari e politica. In questo senso possiamo parlare di oligarchia ed economia di rendita. In Tunisia la rendita è accumulata grazie alla prossimità con il potere. Se sono figlio di, marito di, moglie di, ho accesso ad un monopolio, agli aiuti statali, a facilitazioni di tutti i tipi anche se non produco nulla. E quando un’economia non produce, significa che non viene distribuita ricchezza tra i cittadini. In Tunisia, la ricchezza non se la spartisce la società, ma viene accumulata dall’oligarchia che molto spesso usa conti esteri per portarla fuori dal Paese. I contratti pubblici non sono trasparenti e questo alimenta la corruzione. Quando i tunisini hanno iniziato a manifestare nel 2010, l’obiettivo era proprio quello di rivedere questo modello economico basato su una minoranza che si divide i profitti sulle spalle della maggioranza.

Il 2011 segna uno spartiacque tra la caduta del regime di Zine el-Abidine Ben Ali e l’inizio di una transizione democratica ancora in corso. Possiamo parlare di discontinuità politica, ma cosa ci dici invece della discontinuità economica?

No, non c’è stata discontinuità economica. I progetti non sono cambiati, manca una visione: continuiamo ad appoggiarci sugli stessi settori come l’estrattivismo, il turismo di massa, le monoculture. Produciamo tonnellate d’olio d’oliva e di arance destinati all’export, ma non soddisfiamo i bisogni del mercato locale. I contadini preferiscono le arance maltesi ai prodotti locali per poter ottenere le sovvenzioni statali destinate a chi produce per l’export. Con i nuovi progetti PPP (partenariato pubblico-privato) il privato sta prendendo il posto del pubblico, ma la direzione resta la stessa. Quello che è cambiato rispetto all’epoca pre 2011 è la possibilità di poter mettere in discussione questo sistema, di poterlo contestare, di poter immaginare un’alternativa. Dieci anni fa non sarebbe stato possibile. Questo è un grande passo avanti e non va dato per scontato. Ritagliarci questo spazio di libertà ci ha permesso di portare avanti la lotta sociale, di instaurare un braccio di ferro con il potere.

La pandemia ha contribuito ad accelerare queste dinamiche?

Sì, la pandemia da Covid-19 ha messo in luce carenze e inadempienze di questo modello economico. La politica si è accorta che non è possibile imporre un lockdown ad un Paese i cui cittadini lavorano per metà per il mercato informale, spesso alla giornata. Due mesi di confinamento hanno impedito loro di vivere, costringendo molte persone a rientrare nelle proprie regioni d’origine per poter contare sulla solidarietà della propria comunità. La pandemia ha posto il problema della dipendenza alimentare, perché la Tunisia importa dall’estero i generi alimentari più importanti. Per esempio, il mangime per i capi d’allevamento è importato, così come le varietà di grano piantate dagli agricoltori che hanno sostituito quelle locali. Il Covid-19 ha permesso ai produttori di riflettere sul proprio modo di produzione e sulla sua precarietà.

Esiste, allora, un’alternativa?

Per elaborare un’alternativa ci vuole tempo: bisogna prima analizzare e capire le ragioni profonde del malcontento. Durante questi dieci anni, il dibattito si è concentrato sulla ipolarizzazione del sistema politico tra il campo modernista e quello islamista. Gli stessi partiti di sinistra sono caduti in questa trappola. Ma la società civile ha continuato a dibattere, scrivere e analizzare il sistema economico tunisino. Questo fa sì che oggi molte dinamiche siano più chiare e che si possa finalmente pensare un’alternativa. Nel 2011 non era possibile: volevamo che tutto cambiasse subito ma non sapevamo come. Anche per questo la società parlava attraverso gli slogan. Proprio osservando gli slogan delle proteste più recenti ci si rende conto di questa evoluzione. Allora chiedevamo sovranità, ma solo oggi sappiamo come declinare questo termine. Parliamo di sovranità economica in un Paese che dipende sempre più da crediti esteri ed aiuti internazionali, parliamo di sovranità alimentare in un Paese che non produce abbastanza per soddisfare il fabbisogno dei propri cittadini. Quando oggi un tunisino o una tunisina punta il dito contro il “sistema corrotto” ha in mente volti e nomi di chi è coinvolto. Da dieci anni a questa parte il Paese continua ad essere attraversato da movimenti sociali sempre più consapevoli, nonostante manchi ancora un partito politico capace di rappresentarli. Per questo, malgrado la situazione, io resto ottimista.

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