APARECIDA Non un’ingiustizia di più

di PAMELA CIONI

MARTA DILLON

Marta Dillon, nata a Buenos Aires nel 1966, è attivista, figlia di un’attivista desaparecida: l’avvocata Marta Taboada, rapita, torturata e uccisa dal regime militare negli anni ‘70. Il suo corpo fu sepolto in una fossa comune a Ciudadela e solo nel 2010 Marta ha potuto darle una sepoltura. Nel 2021 le dedica il libro “Aparecida”. Marta nel frattempo è diventata giornalista e sceneggiatrice, autrice di programmi televisivi e documentari. Dopo aver scoperto di essere affetta da Hiv ha scritto un libro dal titolo “Vivir con virus”, tratto dall’omonima rubrica che aveva iniziato a scrivere sul quotidiano “Página/12”, dove ha diretto per anni il supplemento femminile “Las12”. Sposata (e divorziata) con la regista Albertina Carri, con cui ha due figli, si occupa da sempre di femminismo e questioni di genere, e nel 2015 è stata una delle promotrici del movimento “Ni Una Menos”.

 La sua storia di attivismo inizia (a livello familiare) dalla dittatura militare e arriva fino alla legge sull’aborto. Ci può raccontare questa lunga traiettoria e cosa l’ha spinta a intraprendere tante battaglie?

Mia madre fu arrestata e fatta scomparire nell’ottobre del 1975, sette mesi dopo il golpe militare. Da che sono diventata maggiorenne, la ricerca della verità e della giustiza su quello che avevano fatto a lei e ad altre 30mila persone desaparecidas è stato il motore che mi ha spinto a studiare giornalismo e a fare inchieste sul terrorismo di Stato. Più tardi, nel 1995, con la fondazione dell’associazione H.i.j.o.s (Hijos e Hijas por la Identidad y la Justicia contra el Olvido y Mel Silencio) questa ricerca di verità è diventata un impegno collettivo incentrato nella lotta contro la impunità dei crimini di lesa umanità e nella ricerca di altri figli e figlie di desaparecidas che continuavano ad essere espropriati della loro vera identità: erano nati nella prigionia delle loro madri e rubati dalle famiglie di repressori. Allo stesso tempo, ho iniziato il mio attivismo femminista sia con il mio lavoro giornalistico – per 23 anni ho diretto il supplemento femminile “Las12” sul quotidiano “Página/12” – sia attraverso azioni concrete per la legalizzazione dell’aborto, contro la tratta di esseri umani, contro la violenza di genere e l’ingiustizia economica subita dalle donne e dalle persone Lgbtqia+ a causa della divisione sessuale del lavoro. Mi sono anche battuta per la legalizzazione del matrimonio per le persone dello stesso sesso e per la “Legge sull’identità di genere per il riconoscimento delle persone trans e travestiti”; due storiche conquiste per il nostro Paese e per il riconoscimento dei figli e delle figlie nati in famiglie Lgbtqia+ prima della promulgazione di queste leggi. Il mio figlio più piccolo ha ottenuto questo riconoscimento grazie a questa lotta che abbiamo condotto. Poi nel 2015 ho fondato “Ni Una Menos”. La forza di attivarmi in lotte diverse è il risultato di un lavoro collettivo, di trasformazione del lutto in azione, della convinzione che non c’è possibilità per me di restare immobile di fronte alle ingiustizie.

Ci può raccontare la sua genesi del movimento “Ni Una Menos”?

“Ni Una Menos” è uno slogan che abbiamo coniato all’interno di un gruppo di intellettuali, artisti e giornalisti per denunciare e porre un limite ai femminicidi che si commettono quotidianamente nel nostro Paese. Nasce nel 2015 a causa del susseguirsi di omicidi di donne e ragazze che avevano la caratteristica (particolare) che i corpi venivano ritrovati in discariche e allo stesso tempo che i mass media continuavano a parlare di crimini passionali o enfatizzavano la biografia delle vittime per spiegare cosa era successo loro: perché erano sole di notte, come si vestivano o perché erano appassionate di bowling. Molte giornaliste si sono ribellate e hanno deciso di lanciare un appello ad occupare le strade per celebrare un “lutto collettivo” per queste morti, per dire basta ai giudizi sessisti sui nostri corpi e sulle scelte di vita, per inserire nell’agenda pubblica un problema politico com’è la violenza di genere. Lo slogan è ispirato alla poetessa messicana Susana Chávez assassinata a Ciudad Juárez nel 2011 che ha denunciato i femminicidi gridando “Non una morta in più, non una donna in meno”.

Qual è il collegamento tra il colonialismo e le culture patriarcali in Sud America?

Seguendo le compagne del femminismo comunitario, possiamo dire che il colonialismo è radicato in un sessismo che già esisteva nella maggior parte dei popoli indigeni. Tuttavia, uno degli strumenti più potenti del colonialismo, la Chiesa cattolica -e successivamente le chiese evangeliche ha generato ancora più donne e ragazze sottomesse e ancora oggi affrontiamo il loro potere in ciascuna delle nostre lotte.

Come i femminismi possono impegnarsi sulla questione ambientale e quale collegamento tra la violenza maschile contro le donne e la giustizia ambientale?

I femminismi sono dei movimenti che combattono contro l’esclusione di tutte le identità, contro l’idea che ci siano corpi usa e getta che sono lì per servire gli altri e mettono al centro la dignità della vita. In questo senso, la lotta ambientale fa parte della nostra agenda. Lavoriamo con un’etica della cura che non può tralasciare il sottile strato di terra su cui viviamo insieme ad altre specie animali e vegetali. Fin dall’inizio del capitalismo abbiamo saputo che lo sfruttamento dei corpi delle donne e il loro annientamento è costitutivo di questo sistema economico politico “espropriante”. Il colonialismo, mentre espropriava la terra e le risorse naturali, ha usato il massiccio stupro delle donne per annientare i popoli nativi. D’altra parte, l’espansione delle monocolture transgeniche su larga scala ha espulso famiglie contadine e indigene dai loro territori e sono le donne che resistono a questa violenza con un’etica della cura e protezione della vita.

Come i femminismi riescono a dialogare con i movimenti Lgbtqia+? È anche una questione generazionale?

Nel nostro Paese, il dialogo tra femminismi e movimenti Lgbtqia+ esisteva già negli anni ’70 all’interno dei movimenti rivoluzionari ma si è approfondito negli ultimi 20 anni con la consapevolezza che la richiesta di riconoscimento dei diritti e dell’autonomia interessa sia le donne sia le persone Lgbtqia+. Ed è stato negli ultimi dieci che i femminismi hanno allargato gli orizzonti, hanno cominciato a mettere in discussione il concetto di donna, a dialogare anche con i movimenti indigeni e antirazzisti e a mettere in discussione il sistema binario di genere. Il nostro movimento femminista, da “Ni Una Menos” ancora con più forza, è a fianco dei travestiti e dei trans, delle lesbiche e delle identità non binarie ed è in questi dialoghi che si espande l’immaginazione del mondo che vogliamo abitare.

Possiamo oggi parlare di femminismi transnazionali?

Indubbiamente ci sono femminismi transnazionali, così come lo slogan “Ni Una Menos” ha varcato i confini, così ha fatto il movimento #Metoo e dal 2017 lo strumento dello sciopero femminista ha trasformato la “povera” celebrazione della festa della donna – povera perché prima questa data stava perdendo la sua capacità di lotta – per trasformarla in una giornata di manifestazioni di massa in aree geografiche tanto diverse come Argentina, Italia, Turchia, Spagna e altre ancora. Questo ha rafforzato il femminismo anche all’interno delle rivolte sociali, come è sucesso in Cile nel 2019 o in Colombia proprio ora, nel 2021.

Come i femminismi possono dialogare con le donne che non sono attiviste, che non si sono attivate per i loro diritti?

Il dialogo con le donne non attiviste si basa sull’empatia. È necessario ascoltare le loro storie, per capire quando si sono sentite vulnerabili e offrire loro la prospettiva femminista in modo che guardino i loro percorsi di vita da un altro punto di vista. Non credo che ci sia un solo modo. Quello di cui sono sicura è che quando le donne si siedono in cerchio, quando lavorano insieme, quando si guardano negli occhi l’una con l’altra, allora iniziano a rendersi conto che ciò che accade loro non accade loro individualmente ma che c’è qualcosa di politico, ragioni sociali e religiose che sostengono la violenza e l’esclusione. E che è in alleanza con le altre, questo può essere cambiato.

BASTA AI FEMMINICIDI

Nel 2015 “Non una di meno” arriva anche in Italia. Molte sono state fino ad oggi le iniziative a livello nazionale e locale: dalla celebrazione delle giornate del 25 novembre fino agli scioperi del “Lottomarzo” passando per la stesura del “Piano antiviolenza femminista”, realizzato nell’ottobre 2017 e a cui anche COSPE ha contribuito.

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