IMPURE. L’ERRORE DI ESSERE DONNE

MERIEMBÉLAALA

Dal libro “Le guerre delle donne” di EMANUELA ZUCCALÀ

“La parola è deflorata, violentata, prima se si verifiche l’altra deflorazione, l’altra violenza”

(Assia Djebar, Donne d’Algeri nei loro appartamenti)

Ad Algeri torna il sole. È febbraio e il clima sa già di primavera, un tepore che mi conforta come una carezza dopo il freddo invincibile del Sahara d’inverno. Le montagne sono ancora bianche: uno scenario quasi alpino, stranito dal Mediterraneo alla mia sinistra. Galleggio in una specie di trance, insonne e male acclimatata. Sono partita ieri notte da Tindouf, nel sud, con un volo dall’orario crudele: decollo alle due, atterraggio ad Algeri alle quattro e mezzo. Mi attendeva una mattinata inutile in aeroporto, prima del volo delle 13,15 per Roma, e invece Meriem ha insistito per venirmi a prendere all’alba, mi ha portata da lei, mi ha dato un letto, coperte, cuscini morbidi con le federe fresche di bucato, una colazione abbondante, e mi ha detto «questa è casa tua», prima di farmi riaccompagnare in aeroporto.

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Talvolta riemergono persone dal passato, quelle che non ti aspetti. E diventano risolutive nei momenti in cui la solitudine ti disorienta. Meriem Bélaala è una psicologa algerina, ma è soprattutto una femminista storica, tenace, dura e pura. Di quelle che non si sono mai smussate di fronte alla tentazione della politica e del potere. L’avevo intervistata al telefono anni fa, era l’unica a potermi fornire informazioni dettagliate su uno stupro di massa disumano avvenuto accanto alla base petrolifera algerina di Hassi Messaoud. Lei è presidente dell’associazione “Sos Femmes en détresse” (Sos Donne in difficoltà): la sola che sia stata vicina fino all’ultimo alle uniche tre vittime di quel massacro che avessero avuto il coraggio di denunciare e di guardare negli occhi i loro aguzzini in tribunale. Si chiamano Rahmouna, Fatiha e Nadia. Sopravvissute, ma socialmente morte.

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La prima volta che ho parlato con Meriem Bélaala era il 2006. Dopo sei anni sono tornata ad Algeri, transitando verso Tindouf e i campi di rifugiati saharawi nel sud del Paese. Durante le mie poche ore in città, all’andata, lei è stata la prima persona che ho contattato: «Vorrei conoscerti di persona», le avevo scritto, e ci siamo incontrate per una lunghissima e intensa chiacchierata su di lei, sul suo lavoro, sulle quasi cinquemila donne che la sua associazione ha aiutato in vent’anni. Adesso, prima di rientrare in Italia, sono di nuovo da Meriem. Ho dormito un po’, finalmente al caldo, nel suo centro che dà rifugio alle donne maltrattate: il primo a nascere in Algeria, nel 1993.

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Beviamo caffè, mangiamo pain au chocolat ed ensemna, un pane sottile, morbido e oleoso che Meriem riscalda su un fornelletto. Mi sento a casa ma non sono a casa. Uscendo nel sole, incontro ragazze giovanissime con figli neonati, che piegano tovaglie e lavano calzini, e i giochi per i bambini nel cortile. L’altura domina il porto, regala un pezzo di mare azzurrissimo e le case bianche di un’Algeri che questa volta mi è parsa bellissima. Ma forse è merito di Meriem. E arriva anche Rahmouna. L’unica delle tre testimoni di Hassi Messaoud che in tribunale ha resistito fino alla fine. Viene dalla Francia, dove ora vive, per risolvere un problema della figlia. È una donna dai tratti aggraziati e feriti, e io sono felice di conoscerla, quasi onorata. Perché so la sua storia a memoria. Nell’estate del 2001, con Fatiha, Nadia e decine d’altre donne, Rahmouna lavora ad Hassi Messaoud, un’importante base petrolifera nel Sahara algerino, a ottocento chilometri dalla capitale. Fanno le pulizie nelle case degli stranieri e presso le multinazionali. Sono emigrate dal nord del Paese per guadagnare. Affittano baracche nel sobborgo di el-Haïcha per ottomila dinari al mese, ottanta euro circa, e sono costrette a cedere una percentuale del salario allo strozzino che ha trovato loro impiego e alloggio. Vivono sole, fra donne, senza mariti. E lavorano. Elementi sufficienti ad alimentare i pregiudizi della gente del luogo, in gran parte disoccupata e disagiata, che finisce per dipingere el-Haïcha come un concilio di puttane.

La miccia è una predica del venerdì declamata con livore dall’imam locale: sono queste donne le responsabili della dissoluzione dei costumi in città, vanno punite. L’imam non fa che riproporre i sermoni che il Fis, il Fronte islamico di salvezza, gridava durante la guerra civile che ha squassato l’Algeria negli anni Novanta. E dalla moschea parte un raid punitivo di dimensioni estreme: la notte del 13 luglio 2001, trecento uomini irrompono nelle abitazioni delle domestiche al grido di «Allahu akbar!», Dio è il più grande. Torturano 39 donne, violentandole a turno. Brandiscono bastoni, spranghe di ferro e coltellacci. Tranciano seni, cosce e organi genitali. Tentano di seppellire le vittime sotto la sabbia e i sassi, finché la polizia non si decide a intervenire.

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Tutti, ad Hassi Messaoud, hanno ascoltato gli strali dell’imam, ma il ministero degli Affari religiosi smentirà ogni parola e il leader spirituale non avrà mai problemi con la giustizia. Il processo di primo grado si svolge a Ouargla, capoluogo della provincia, il 15 giugno 2002. Gli aggressori sono quasi tutti irreperibili, gli imputati solo 32 e in massima parte assenti, le vittime in aula otto: le intimidazioni da parte delle famiglie degli accusati imbavagliano le altre. Molte donne lasciano la zona, vogliono dimenticare sebbene nessuna, sotto la pressione delle associazioni femministe, ritiri formalmente la denuncia.

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La sentenza di primo grado assolve dieci dei 32 imputati e condanna gli altri, in contumacia, a pene lievi. È il procuratore della Repubblica a ricorrere in appello, un fatto che restituisce speranza alle vittime.

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Questa volta 23 stupratori vengono condannati a vent’anni, ma sono tutti latitanti. Dei sei presenti in aula, tre ricevono pene da tre a otto anni e gli altri sono assolti. Le vittime saranno risarcite con 100mila dinari, meno di 1.200 euro a testa. A sostenere lo sguardo dei carnefici e dei loro parenti sono rimaste soltanto loro: Fatiha, Nadia, Rahmouna. Per le associazioni femministe la sentenza è una vittoria, ma si deve osare oltre, e questa volta sono le vittime a chiedere una revisione del processo per ottenere pene più severe e maggiori indennizzi. Il 17 maggio 2006, alla Corte di Biskra, durante la presunta tappa finale di una vicenda che poteva divenire esemplare, compare solo uno dei condannati. Il processo è rinviato all’autunno, dopo il Ramadan, ma intanto per Fatiha, Nadia e Rahmouna qualcosa s’è spezzato.

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Perché? «Perché quando i loro bambini escono in strada, la gente del quartiere li chiama “figli di puttana”. Perché tutte le associazioni le hanno trattate come delle bandiere da sventolare in nome di un principio, per poi abbandonarle al loro destino», dice Meriem Bélaala. Il 17 maggio 2006 lei viaggiava in macchina verso Biskra insieme con le testimoni, ed era l’unica rappresentante delle associazioni.

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Arrivate al tribunale di Biskra, trovano uno sparuto drappello di associazioni femministe ad appoggiarle in mezzo a una folla di uomini, parenti degli aggressori. Le tre donne non reggono.

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Si scoprono stanche, povere e derise. Si maledicono per essersi illuse che la loro parola, liberata nello spasmo come in un parto non voluto, avesse potere. E il processo si conclude confermando le vecchie, irrisorie condanne. Al termine del primo appello, le coraggiose testimoni erano state esaltate come eroine della parola, paladine di una rivoluzione per tutte le donne d’Algeria. Ma oggi non più. Oggi Nadia abita in una baracca nella città di Tiaret con dieci tra fratelli e sorelle, tutti disoccupati. Ed è la più ferita. «Non ascolta nessuno – sospira Meriem Bélaala –, non sappiamo più come recuperarla». Fatiha ha avuto un marito violento che le ha rinnovato il trauma: s’è sposata senza amore, voleva solo dimostrare alla gente di non essere una puttana, farsi accettare di nuovo dai genitori. Poi se n’è andata in Francia con Rahmouna e adesso vivono in un centro per gente senzatetto, con un permesso di soggiorno rinnovabile che non concede loro di lavorare. Ma sempre meglio che restare ad Algeri, mi dice Rahmouna a colazione: «Questo non è più il mio Paese. Io ero davvero convinta che qualcuno mi avrebbe aiutata, qui».

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Subito dopo i fatti di Hassi Messaoud, Fatiha, Nadia, Rahmouna e altre dieci vittime hanno trovato rifugio nel “Centro Darna” di Algeri. La parola darna in arabo significa “casa nostra” ed è stato fondato dall’associazione Rachda di Khalida Toumi Messaoudi, nota femminista, condannata a morte nel 1993 dagli estremisti islamici per il suo progressismo e a lungo ministro della Cultura nell’Algeria ambiguamente pacificata dal presidente Abdelaziz Bouteflika. Il “Centro Darna”, sostenuto anche dall’associazione italiana COSPE, si trova nel quartiere Mohammadia, una fioritura di palazzoni bianchi d’epoca coloniale, nella periferia orientale della città.

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Quando sono nati, il centro Darna e quello di “Sos Femmes en détresse” erano stati pensati per due categorie particolari di donne: le vittime del Codice della famiglia, vale a dire mogli ripudiate o divorziate la cui unica alternativa era la strada; e quelle violentate dai terroristi durante gli anni di piombo dell’Algeria, tra il 1992 e il 1998, quando il Gia, Gruppo islamico armato, e l’Ais, Esercito islamico di salvezza, uccisero 250mila persone. Ma poche di queste donne sono uscite allo scoperto. Non hanno chiesto aiuto e gli stupri di guerra sono rimasti impuniti.

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Secondo i dati ufficiali, dal 1993 al 1998 a duemila algerine è toccata la sorte di sabaya: schiava di guerra. Ma le associazioni che hanno assistito le vittime quadruplicano la stima. Venivano rapite come bottino di battaglia dopo saccheggi e massacri nei villaggi. Sequestrate all’uscita da scuola e consegnate agli emiri che le gettavano nell’incubo degli stupri collettivi. Usate dai terroristi come scudi umani durante gli scontri con le forze dell’ordine. Una giostra delle atrocità che la Carta per la pace e la riconciliazione nazionale, entrata in vigore dopo un referendum nel febbraio del 2006, ha ufficialmente cancellato dalla memoria in nome di un futuro libero dai mostri. E l’amnistia, fino a quell’anno, aveva liberato oltre 2.500 terroristi.

In un libretto paralizzante pubblicato dall’associazione “Rachda”, “Temps de viols et de terrorism” (Tempo di stupri e di terrorismo), si viaggia dentro un autentico Medioevo della ragione, documentato dalle testimonianze degli stessi terroristi pentiti: prigioniere sottoposte a dozzine di stupri in poche ore, chiuse in casematte scavate nelle montagne e tenute seminude perché non fuggissero, infine sgozzate quando troppo usurate. E la furia sui cadaveri: decapitazioni, seni tagliati, vulve dilaniate. E donne incinte percosse sulla pancia per aggirare il divieto d’aborto sancito dall’islam. «Fu il caso di Mahdia, incatenata e picchiata per una settimana perché uno dei terroristi del campo voleva usarla ancora –si legge nel volume–. Lui le dava calci al ventre, lei urlava ma non perdeva il bambino, allora l’hanno condannata a morte per stupro. L’hanno violentata in settanta, poi è stata calpestata e squartata».

La donna, che in quegli anni di sonno della ragione era considerata dagli estremisti il germe di ogni trasgressione e corruzione dei costumi, era bersaglio di un astio cieco. «Ma non parliamo di follia collettiva né di perversione –avvertono gli autori del libro–. Era un progetto politico nel quale tutte le pratiche poggiavano su giustificazioni politico-religiose». Era la guerra totale contro gli empi. E non accadeva tanto tempo fa. La violenza sessuale non va intesa nemmeno come un’inevitabile e tristemente banale atrocità di guerra: «Bisogna distinguere gli stupri commessi in modo più o meno fortuito da quelli sistematici al servizio di una purificazione genocida, pensata e giustificata», scrivono ancora gli esperti di Rachda.

Il 2 aprile 1998, l’Alto Consiglio islamico d’Algeria emanava una sentenza che riconosceva la donna violentata come «onorevole e pura. Non dev’essere né biasimata né mortificata. Chiunque minacci il suo onore, verrà perseguito e punito dalla legge». Però restava il divieto d’aborto, tuttora consentito solo per ragioni di salute, e soprattutto non si faceva alcun cenno alla colpevolezza dei terroristi. Troppo poco per frenare l’emorragia psichica delle vittime. «Sono state private di un confronto davanti alla giustizia – mi aveva detto Badia Sator – e sappiamo che la mancanza d’azione per la vittima ha conseguenze distruttive sulla sua personalità». Talvolta però anche l’azione, in un terreno ancora sconnesso come quello algerino, può ritorcersi nell’umiliazione. Com’è accaduto a Fatiha, Nadia e Rahmouna, le eroine lacere di Hassi Messaoud. Costrette ad abbracciare l’oblio per poter continuare a vivere.

CENTRO DARNA DI ALGERI

Fin dalla sua nascita COSPE, con la figura della sua fondatrice e prima presidente Luciana Sassatelli, ha creduto nella necessità di far incontrare e dialogare i movimenti del sud e del nord del mondo. Proprio grazie a questa
visione, grazie a un partenariato euromediterraneo tra COSPE, l’associazione algerina Rachda (Rassemplement Contre la Hogra et pour les droits des algérienne), Regione Emilia Romagna, Comune di Forlì e il finanziamento degli Affari Esteri, negli anni ’90 nasce ad Algeri il Centro Darna. Il centro è ancora oggi attivo e accoglie vittime di violenza domestica e del codice della famiglia fornendo loro accoglienza e assistenza legale, sanitaria e psicologica.

IMPURE. L’ERRORE DI ESSERE DONNE
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