Bilancio a 25 anni dagli Accordi di Oslo

— Nati sotto cattivi auspici, gli accordi del ’93, non sono andati molto lontano.

Il 13 settembre del 1993, con una storica stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, furono siglati gli “Accordi di Oslo”, o più ufficialmente, le “Dichiarazione dei Principi riguardanti progetti di auto-governo ad interim o Dichiarazione di Principi”. Furono la conclusione di una serie di intese segrete e pubbliche e di negoziati condotti tra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (che agiva in rappresentanza del popolo palestinese), come parte di un processo di pace che mirava a risolvere il conflitto arabo-israeliano. Nonostante le speranze che suscitarono, quegli accordi lasciarono irrisolte molte questioni e rappresentano la disillusione di chi pensava si stesse cercando di raggiungere una pace giusta. Ne abbiamo parlato con Luisa Morgantini, presidente di Assopace Palestina, ed ex vice-presidentessa del Parlamento Europeo.
A 25 anni dagli Accordi di Oslo, una serie di questioni aperte durante i negoziati sono ancora irrisolte, prime fra tutte la costituzione dello Stato di Palestina, lo status di Gerusalemme e la questione dei rifugiati palestinesi. Come si è arrivati a tutto ciò? Si poteva prevedere la debolezza degli Accordi?
Con la firma degli accordi di Oslo si è creduto che davvero potesse esserci finalmente la pace in Palestina e Israele. Rabin sembrava convinto che per la pace fosse necessario restituire i territori occupati nel 1967. Non così le destre e i coloni israeliani che nel novembre del 1995 lo assassinarono per mano di Igal Amir. L’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), già nel Consiglio Nazionale tenutosi ad Algeri il 15 novembre del 1988, aveva abbandonato il sogno di uno stato unico in tutto il territorio della Palestina storica, e deciso di accettare le conseguenze della guerra del ‘48 e la conquista del territorio da parte di Israele e di rivendicare lo stato di Palestina solo sui territori occupati del ‘67 con Gerusalemme capitale condivisa. I negoziati di Oslo sono stati tenuti segreti non solo all’opinione pubblica ma anche alla delegazione dei negoziati a Madrid e poi a Washington, guidati da Haider Abdel ShaFi, amato leader palestinese che per primo denunciò la trappola degli accordi di Oslo, sostenendo che non vi era mutualità e reciprocità; mentre l’Olp riconosceva lo stato d’Israele, nulla di questo vi era da parte israeliana che riconosceva soltanto l’Olp come legittimo rappresentante del popolo palestinese ma soprattutto non vi era nessun riferimento alla cessazione dell’espansione delle colonie nè tantomeno, si affrontava la questione di Gerusalemme o quella dei profughi. La trappola di Oslo, si fece via via più evidente, i palestinesi non potevano più recarsi a Gerusalemme, permessi di lavoro per i lavoratori bloccati, costruzione di strade per i coloni. Quelli che erano posti di blocco volanti divennero permanenti segnando una linea di confine che però penetrava profondamente nel territorio palestinese, cosi come fece il muro con i suoi 780 km.
Le forze escluse dall’Olp come Hamas, hanno dato, con la scelta degli attentati contro i civili, modo a Israele, con la complicità dei media internazionali, di costruire una narrativa che non parlava dell’occupazione militare e della colonizzazione del territorio palestinese, ma solo degli attentati terroristici contro la popolazione civile israeliana. Sì, si poteva prevedere la trappola ma è mancata alla leadership la concezione dell’essere al governo e della necessità comunque di lottare per l’applicazione degli accordi.
Anche le misure temporanee prese con gli Accordi di Oslo, come la divisione in aree della Cisgiordania, che comporta la mancata sovranità territoriale ed economica della Palestina, continuano a restare temporanee. Fino a che punto Israele aveva previsto il procrastinarsi di queste misure “temporanee”?
I coloni, che alla firma di Oslo erano 150.000 oggi sono più di 600.000, e sono ministri, giudici, generali che hanno preso con la destra il potere in Israele. Nel 2000 con la camminata di Sharon alla Spianata delle moschee che ha dato inizio alla seconda Intifadah, Oslo è definitivamente saltato. Le tre aree A (città palestinesi autogovernate), B (amministrazione e sicurezza palestinesi), C (totale dominio israeliano del 60% del territorio), che avrebbero dovuto essere temporanee con il definitivo ritiro dell’esercito israeliano nel 1999, sono state rioccupate da Israele, che ha devastato città, confiscato terre e acqua, distrutto alberi, arrestato migliaia e migliaia di persone, imposto assedio e distruzioni a Gaza. Israele ha scientemente perseguito una politica di annessione coloniale.
In che modo il ruolo e gli interventi della Comunità Internazionale hanno contribuito al fallimento delle aspettative degli Accordi?
In primo luogo lasciando che i negoziati e l’applicazione dell’accordo venissero gestiti dalle due parti così asimmetriche nel loro potere da una parte un paese occupante e dall’altra un popolo occupato militarmente. Dall’altra denunciando le pratiche di violazione dei diritti israeliani ma senza far pagare ad Israele il prezzo dei crimini commessi contro la popolazione palestinese, ma anche nel creare un’ economia di dipendenza in Palestina e facendosi carico dei costi dell’occupazione israeliana, procrastinandola nel tempo.
Quanto pesa il ruolo dei media rispetto alla posizione di Israele che ha sempre dichiarato di non avere delle controparti affidabili o disposte a trattare veramente?
I media hanno giocato e giocano un ruolo determinante nel mostrare i palestinesi come estremisti o terroristi, sembra abbiano totalmente adottato la propaganda israeliana. Non si racconta la vita quotidiana dei palestinesi che da più di 50 anni vivono sotto occupazione militare, di intere generazioni che non hanno mai avuto la libertà, delle violazioni continue di ogni diritto, delle persecuzioni.
Non si mette mai in luce che qualsiasi ebreo del mondo può andare in Israele ed avere la cittadinanza mentre si impedisce ai palestinesi della Diaspora, di tornare anche solo a visitare la loro terra. Non si parla del divieto per la popolazione della Cisgiordania e di Gaza di recarsi a Gerusalemme, che non è solo la città del Santo Sepolcro o della moschea di Al Aqsa. Fino agli accordi di Oslo, Gerusalemme contava per il 35% dell’economia palestinese. Ogni volta si chiede ai palestinesi di fare concessioni, invece di chiedere ad Israele di rispettare la legalità internazionale.
In questo contesto, oggi, l’amministrazione statunitense, adottando la linea e il linguaggio proposto da Netanyau, prova a trattare le questioni irrisolte in maniera apparentemente pragmatica, partendo dai “facts on the ground”, ad esempio con il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele e i tagli ingenti all’agenzia Unrwa (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees). Dove porterà questo approccio?
Non c’è soluzione pragmatica, ma solo il disprezzo del diritto internazionale nella linea di Trump, e la totale alleanza con la propaganda di Israele. I profughi palestinesi devono essere cancellati per Trump e Israele, i tagli all’Unrwa fanno parte di questa linea. Non ci sarà soluzione se la Comunità Internazionale non decide di intervenire massicciamente nei confronti di Israele per far finire l’occupazione militare israeliana. Uno Stato per tutti, uguaglianza democrazia, due popoli e due Stati con Gerusalemme capitale condivisa, riserve indiane? La comunità internazionale ha nelle sue mani la soluzione.

Intervista a Luisa Morgantini di Beatrice Mattiuzzo

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