Ormai “DOVREMMO ESSERE TUTTI FEMMINISTI” ma…

di Debora Angeli

I diritti delle donne, la parità di genere, l’equità di genere sono termini sempre più diffusi nel discorso pubblico.
Tutto questo è importante ed è sicuramente merito delle battaglie incessanti dei movimenti femministi delle donne per tenere viva l’attenzione su fenomeni globali. Le statistiche però rimangono impietose e ci raccontano che: in tutto il mondo si stima che circa il 35 per cento delle donne abbia subito violenza, sessuale e non, almeno una volta nella vita; le bambine già sposate con un uomo (solitamente molto più grande) ammontano a 22 milioni circa. Centinaia di milioni di altre bambine sono a rischio matrimonio forzato e precoce; ogni anno, nella sola Africa, ci sono tre milioni di donne e di bambine a rischio Fgm (mutilazioni genitali femminili); le donne hanno meno probabilità di partecipare al mercato del lavoro degli uomini e hanno maggiori probabilità di essere disoccupate in molte parti del mondo e infine che gli effetti negativi del cambiamento climatico sono ancor più pronunciati per le donne. Per una donna, soprattutto se vive in un paese povero, è più alta la probabilità di morire in seguito a un evento estremo, di avere un peggioramento della sua salute mentale, di essere soggetta a violenza domestica e ad avere minore sicurezza alimentare. E potremmo continuare… Ma, nonostante questi dati, rimane il problema di una narrazione che ha ricadute pratiche e politiche e che continua a relegare la questione dei diritti delle donne a questione specifica dimenticando che le donne sono la metà del mondo e che la violazione dei diritti delle donne è la più antica, pervasiva e diffusa violazione dei diritti umani e tocca qualunque ambito.
L’Iran e l’Afghanistan rimangono una testimonianza di questa complessità. E accanto a questo si fa fatica a vedere l’altra faccia della medaglia. Parliamo spesso di violenza contro le donne o di violenza di genere ma difficilmente, soprattutto nei contesti più patriarcali, parliamo di violenza maschile e così il problema della violenza sembra sempre riguardare le donne e non gli uomini. Oppure le questioni vengono frammentate e si parla di disoccupazione femminile senza collegarle concretamente alle politiche pubbliche di welfare e questo ha un impatto ancora più forte nei paesi poveri. Oppure le grandi questioni contemporanee, come i cambiamenti climatici, vengono affrontate spesso senza vederne le ricadute di genere. I diritti riproduttivi e sessuali e la violenza maschile sono questioni strategiche per l’autodeterminazione e la libertà delle donne. E vediamo come proprio questi due ambiti siano tra i più strumentalizzati e attaccati: la limitazione o negazione del diritto all’aborto per esempio così come il tentativo di venir meno agli obblighi della Convenzione di Istanbul riguarda anche l’Europa e più in generale il mondo occidentale e diventano battaglie identitarie di destre oppressive e autoritarie facendo emergere il nesso di come il declino delle democrazie ricada di nuovo sui corpi e la vita delle donne. Cosa possiamo fare oggi? Forse non si tratta più solo di promuovere i diritti delle donne, pur rimanendo un traguardo importante, ma immaginare quale altra società oggi sia possibile a partire dalle visioni e pratiche femministe che mettono al centro le persone, le loro libertà e autodeterminazioni, la cura che deve avere una nuova cittadinanza rompendo con una logica predatoria che prima di tutto ha agito da tempo immemorabile su corpi delle donne. E dobbiamo farlo incrociando pratiche e visioni tra donne dalle varie parti del mondo (i tanti sud e nord del mondo) in un’ottica intersezionale
Forse è arrivato anche per COSPE il tempo di definirsi organizzazione femminista? La scrittrice femminista nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie nel suo libro “Dovremmo essere tutti femministi” ha cercato di immaginare un’altra società e un’altra convivenza: «Io vorrei che tutti cominciassimo a sognare e progettare un mondo diverso. Un mondo più giusto. Un mondo di uomini e donne più felici e più fedeli a sé stessi». Forse dobbiamo ripartire da qui…

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