Cinquant’anni di occupazione illegale

— L’occupazione israeliana viola tutti i diritti dei palestinesi. Primo fra tutti quello alla terra.

Come rilevato dalla Corte internazionale di giustizia nel suo storico “Parere relativo al muro in Palestina” (risoluzione ES 10/14, adottata l’8 dicembre 2003 ndr), la situazione di illegittima occupazione militare che si protrae da oramai oltre cinquant’anni costituisce la base per la violazione di una serie di diritti fondamentali del popolo palestinese e dei singoli individui che ne fanno parte. L’occupazione militare israeliana produce infatti gravi violazioni dei diritti umani, del diritto internazionale umanitario e del diritto all’autodeterminazione dei Palestinesi. Pronunciandosi quattordici anni fa sul muro in Palestina, la Corte internazionale di giustizia, ha affermato fra l’altro la piena vigenza dei Patti internazionali relativi ai diritti umani nei territori palestinesi occupati. Ciò vale sia per i diritti umani civili e politici che per quelli economici, sociali e culturali.
Del pari risultano applicabili in tale contesto le disposizioni del Convenzione internazionale relativa ai diritti del fanciullo.
La Corte in tale occasione ha ritenuto in particolare che la costruzione del muro impedisca l’esercizio da parte dei Palestinesi dei loro diritti al lavoro, alla salute, all’istruzione e a un tenore di vita adeguato. Più di recente, il Rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite del 24 agosto 2016 sugli insediamenti israeliani nei territori occupati (undocs.org), dopo aver descritto l’espansione di tale insediamenti mediante vari strumenti ed accorgimenti adottati dal governo israeliano, gli atti di violenza perpetrati dai coloni nei confronti della popolazione palestinese e l’impatto sulle sue comunità, ha sottolineato in particolare gli effetti negativi nei confronti dei diritti umani, specie quelli alla vita e sicurezza fisica, alla salute e quelli dei bambini.
Il deterioramento della situazione esistente nei territori palestinesi occupati è stato da ultimo oggetto di una risoluzione adottata il 14 maggio 2018 dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite con 29 a voti favore, 2 contrari (Australia e Stati Uniti) e 14 astensioni (ohchr.org), che ha deciso fra l’altro l’istituzione di una Commissione d’inchiesta sui recenti massacri di dimostranti inermi avvenuti a Gaza. È evidente come in un contesto del genere continui e si aggravi la violazione dei diritti di ogni genere dei Palestinesi da parte del governo occupante. Desta gravi preoccupazioni, specie in prospettiva di lungo periodo, quella del diritto alla terra e in genere all’uso delle risorse naturali e ambientali, prime fra tutte l’acqua, che dovrebbero costituire, come per ogni popolo, la base della vita e del futuro dei Palestinesi.
A tale riguardo va precisato che la situazione della terra risulta estremamente critica sia per limitazioni di ordine geografico (ristrettezza del territorio, solo in parte coltivabile) sia soprattutto politico e giuridico. L’acquisizione della terra fertile da parte della comunità ebraica prima e dello Stato di Israele poi è stato attuato in modo sistematico a partire dall’inizio del ventesimo secolo mediante dapprima l’intervento del Fondo Nazionale Ebraico istituito nel 1901) e le ordinanze dell’autorità coloniale britannica (in particolare la Wood and Forest Ordinance del 1920) per assumere dimensioni ben più massicce a partire dalla proclamazione dello Stato di Israele nel 1948, accompagnata dalla cacciata violenta di circa 700.000 Palestinesi dalle loro residenze e dalla successiva istituzione della legge marziale nonché dalla cosiddetta legge sulla proprietà degli assenti del 1950. Seguirono nel 1967 l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza e i vari piani di colonizzazione delle terre più fertili situate in tali aree con la costruzione di insediamenti israeliani cui venivano assegnate terre sottratte ai Palestinesi mediante la confisca per necessità militari o di sicurezza o la statalizzazione. Del pari, le fondamentali risorse necessarie per svolgere il lavoro agricolo, a cominciare da quelle idriche ed energetiche, venivano negate in tutto o in parte ai contadini palestinesi.
Considerando che il settore agricolo costituisce tuttora il principale reparto dell’economia palestinese si può comprendere il carattere cruciale della resistenza che i contadini palestinesi continuano ad opporre al processo di espropriazione e le difficoltà che essi incontrano per realizzare quotidianamente il loro lavoro. Sussiste tuttavia una rete globale di solidarietà formata da varie istituzioni che operano sia sul terreno finanziario che su quello propriamente tecnico e forniscono in tal modo un importante supporto all’agricoltura palestinese. Da notare anche la partecipazione dei contadini palestinesi al movimento contadino internazionale, che ha ottenuto di recente l’approvazione da parte del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite della Dichiarazione dei diritti dei contadini (settembre 2018).
Su tale base si struttura e si sviluppa l’iniziativa per l’attuazione della sovranità alimentare come parte della più generale lotta per l’autodeterminazione del popolo palestinese e la disponibilità delle risorse naturali che i più importanti trattati in materia di diritti umani a partire dai Patti del 1966 attribuiscono ai popoli.

di Fabio Marcelli
Avvocato “Giuristi Democratici”, scrive su Il Fatto Quotidiano

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