Palestina. Una terra senza terra

Nonostante ci sia l’opinione diffusa di un conflitto storico, in realtà la questione israelo-palestinese è relativamente recente. Dalla fine del XIX secolo il movimento sionista ha avviato la campagna a larga scala internazionale, con l’obiettivo di portare gli ebrei ad avere un proprio stato nelle terre palestinesi, la “terra promessa” agli ebrei secondo l’Antico Testamento. Il resto lo hanno fatto, nel 1947, le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, occidente in testa, con un Piano di Ripartizione che attribuiva il 54% del territorio al terzo di popolazione ebraica insediata e il restante 46% ai due terzi di palestinesi. È nato lì in conflitto che ha portato al 1948, con la nascita dello stato di Israele e la Nakba (la “Catastrofe”) per i palestinesi, in buona parte cacciati via dalle loro terre, e ancora oggi senza uno stato, nell’inerzia delle istituzioni internazionali. “L’Europa, che ha colonizzato il mondo arabo, l’ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura… è la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato, dato la caccia e infine sterminato in massa gli ebrei perpetrando un genocidio senza precedenti”, ci ricorda Amos Oz nella sua opera “Contro il fanatismo”.

Dopo la Nakba, è seguita l’occupazione militare da parte di Israele (tuttora in corso dal 1967, dopo la Guerra dei sei giorni),  scandita dalla colonizzazione del territorio palestinese, dagli attacchi militari di Israele e dalle due Intifade (in arabo “scuotimento”, “sollevazione”: nel 1987 quella “delle pietre”, nel 2000 quella armata ndr), proseguita poi  con l’assedio e la chiusura della Striscia di Gaza (dal 2007) e la progressiva polverizzazione del territorio palestinese, nel disprezzo degli accordi fatti ma poi disattesi. Tra i più noti, quelli di Oslo del 1993, dai quali nasce la Autorità Nazionale Palestinese e la scellerata divisione del territorio palestinese nelle aree A, B e C. Sullo sfondo, il diverso grado, sempre crescente, di occupazione militare e controllo da parte di Israele (vedi mappa e grafico 1). Quello che oggi dovrebbe costituire lo stato indipendente di Palestina (Striscia di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est) è invece una terra colonizzata e sottoposta a un regime di apartheid, come dimostrano diverse organizzazioni internazionali: Amnesty International, il Mandela institute, Human Rights Whatch. La Palestina è oggi uno stato senza terra, un popolo senza terra, in gran parte di rifugiati (grafico 2): circa 2.400.000 in Giordania, 580.000 in Siria, 480.000 in Libano, oltre ai 2.000.000 di sfollati nello stesso territorio palestinese (Fonte Unrwa).

Grafico 1. Fonte: ISPI
Grafico 2. Fonte: Ispi.

La storia della Striscia di Gaza è ancora più cruenta: questa zona costiera aveva già vissuto nel 1948 la Nakba, ed oggi vivono oltre 2 milioni di persone in una delle aree a maggiore densità di popolazione al mondo. Dopo le elezioni politiche in Palestina vinte da Hamas nel 2006, definite regolari dagli osservatori internazionali, Usa, Israele e il mondo occidentale hanno boicottato e imposto un embargo alla Palestina, portando ad una guerra interna tra le due principali componenti politiche, Hamas e Fatah, che ha portato al potere Hamas a Gaza, con il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania. L’embargo e la chiusura della Striscia hanno portato ad una serie di attacchi militari ripetuti negli anni da parte di Israele (2008, 2012, 2014, 2021) oggi culminati nella strage sotto i nostri occhi.

Secondo Francesca Albanese, la Special Rapporteur delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi occupati, le origini del conflitto odierno sono lì, in quel progetto colonialista israeliano di controllo esclusivo della terra; e dell’acqua, e di tutte le risorse naturali, economiche e culturali.
Questo si vede in particolare nell’area C della Cisgiordania, totalmente controllata da Israele, che è anche l’area più ricca di risorse naturali della Palestina. Le restrizioni imposte in queste zone dalle autorità israeliane limitano di molto, per i residenti palestinesi, l’accesso alle risorse, la sovranità alimentare e lo sviluppo economico.
Secondo l’Onu, le restrizioni imposte da Israele all’Area C riducono del 35% il Pil palestinese: solo il 21% delle terre sono arate in Palestina e il 93% delle terre coltivate non è irrigato. Inoltre, Israele nel corso degli anni ha negato il 98% dei permessi richiesti dai palestinesi per poter costruire abitazioni, fabbriche, stalle, serre, officine o altro ancora in Area C, in pieno territorio palestinese.
Ocha, l’Ufficio di Coordinamento degli Affari Umanitari delle Nazioni Unite, ha misurato in circa 10.700 le demolizioni di strutture abitative e lavorative in territorio palestinese da parte dell’esercito israeliano, solo dal 2009 ad oggi, con oltre 16.000 sfollati. L’istituto di statistica palestinese (Pcbs) ci fornisce i numeri impietosi delle confische di territorio palestinese ad opera delle autorità israeliane: oltre il 75% della Cisgiordania (Area C) è sotto il controllo assoluto di Israele; oltre il 10% della Cisgiordania è stato di fatto confiscato con la costruzione del Muro di Separazione, isolando oltre 200 comunità; 542 km² erano stati confiscati al 2021 per fare spazio alle colonie israeliane in territorio palestinese; il 18% delle terre palestinesi è stato confiscato per ospitare basi e postazioni militari dell’esercito israeliano; 35.300 ettari di terre palestinesi sono state definite riserve naturali e chiuse all’accesso dei palestinesi.

Inoltre, l’Autorità Nazionale Palestinese è in grado di soddisfare solamente la metà del fabbisogno di acqua della popolazione palestinese, che è costretta a comprarla dall’azienda pubblica israeliana Mekorot a prezzi fino a sei volte superiori a quelli degli utenti israeliani, che hanno un consumo medio giornaliero pro capite di 300 litri (Oms, 2020), compresi i coloni in territorio palestinese, contro i 70 litri circa del consumo pro capite dei palestinesi in Cisgiordania e il 97% di inquinamento delle fonti d’acqua a Gaza, prima ancora della guerra in corso. E mentre i palestinesi soffrono la sete (e la fame di conseguenza) avanzano le colonie israeliane nel territorio palestinese. Proibite dal diritto internazionale, ma in netto aumento negli ultimi anni.

Altro punto nodale della questione palestinese è il numero incredibile di prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, anche ciò nel disprezzo del diritto umanitario: dopo l’abnorme e ingiustificata ondata di arresti succedutisi all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, il numero dei prigionieri politici palestinesi ha ormai raggiunto le 8.000 unità (Addameer), con un crescente numero di minori e ragazzi. Tutti sono sottoposti alle corti militari e non civili, con cattura extragiudiziale ed extraterritoriale da parte dell’esercito, e nella maggior parte dei casi si tratta di detenzione amministrativa, reiterata per anni senza precisi capi di accusa, con limitazioni al diritto alla difesa, condizioni difficili del regime carcerario, uso di mezzi di tortura, pesanti condizioni di salute e sicurezza.   

Tutto ciò ha effetti sulle parti più vulnerabili della società palestinese, con metà della popolazione femminile e il 38% con meno di 14 anni. L’età media della popolazione nella Striscia di Gaza è di 18 anni, e in Cisgiordania di 21 anni. Una popolazione molto giovane che, secondo i dati della Banca Mondiale, non è né scolarizzata né occupata per il 31.8 %, con un dato del 46% a Gaza. Chi soffre di più della disoccupazione sono le donne (41%) contro una disoccupazione maschile del 21%. Ciò anche a causa della struttura patriarcale della società palestinese, che è all’origine di molte problematiche che ostacolano l’equità nell’esercizio dei diritti e il riconoscimento formale e sostanziale delle donne (per non parlare delle persone Lgbtqia+), naturalmente nel quadro di privazione dei diritti già esposto: bassa scolarizzazione, disoccupazione, esposizione alla violenza quotidiana, occupazione militare, colonizzazione.

Sono deboli, infine, i processi di partecipazione politica: a fronte di una indiscutibile ricchezza della società civile, le elezioni politiche annunciate più volte negli ultimi anni sono sempre state rimandate a data indefinita, mentre le elezioni amministrative del 2021 e 2022 hanno aperto scenari di instabilità e crisi, che si riflettono nello stallo e nello scontro tra i diversi partiti.

Questi fattori interni, purtroppo, mettono in evidenza la fragilità delle autorità e della società palestinese di fronte al colonialismo israeliano, che procede spedito e spietato nell’assoluto silenzio colpevole delle istituzioni e dei governi internazionali. Unico argine: i tanti esempi di cooperazione e solidarietà internazionale dei movimenti e della società civile, impegnati in percorsi sempre più complessi e complicati, per il riconoscimento dei diritti e della dignità umana, tanto per i palestinesi quanto per gli israeliani.

Immagine di copertina: visualizingpalestine.org

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