Carovana delle Ong a Rafah. Solidarietà oltre il confine.

“Le persone di Gaza, anche quelle che vi sembrano vive, o che sopravviveranno fisicamente a questa catastrofe, sono morte anche loro”. Di fronte al valico di Rafah a pochi chilometri dalla famiglia, dalla sua casa (anche se quella fisica non c’è più) Youssef Hamdouna pronuncia parole pesanti come pietre.

Noi, di qua dal muro della frontiera, immaginiamo soltanto la tragedia che si sta consumando poco distante da noi. Lui la vive. Youssef è un operatore di Educaid che il 7 ottobre si trovava in Italia e che ha deciso, dopo mille dubbi, di unirsi alla carovana solidale organizzata dall’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (Rete Aoi), in collaborazione con Arci e Assopace Palestina che dal 3 al 6 marzo scorso si è recata in Egitto, fino al valico di Rafah in segno di solidarietà con la popolazione palestinese martoriata dalla violenza e dall’oppressione. Cinquanta persone tra operatori e operatrici umanitari (tra cui COSPE), parlamentari, giornaliste e giornaliste.

Attraverso i suoi occhi e i suoi racconti il nostro viaggio è diventato, se possibile, ancora più intenso e difficile. La strada che la delegazione ha compiuto dal Cairo ad Al Arish (ultima città prima del valico) attraverso numerosi e interminabili check point lungo il Sinai del nord, terra arida e pericolosa a causa di una forte presenza jihadista, è la stessa strada che tutti i palestinesi come Youssef, che per motivi di studio, di salute, di lavoro riuscivano a uscire dalla Striscia, hanno compiuto in entrata e in uscita molte volte. Ogni volta affrontando anche abusi, vessazioni (ore e giorni in attesa di poter prendere un bus verso il Cairo con pretesti vaghi) , richieste di mazzette e umiliazioni varie.

Il racconto di Yussef ci restituisce un piccolo assaggio della difficoltà della vita quotidiana dei palestinesi, ben prima di questa guerra. Dal 7 ottobre naturalmente tutto è precipitato e la vita complicata dei gazawi è diventata, nel migliore dei casi, sopravvivenza: nei giorni che hanno preceduto l’arrivo alla frontiera, al Cairo, la delegazione italiana ha incontrato alcune organizzazioni palestinesi per la difesa dei diritti umani, come Al Mezzan e Palestinian Centre for Human Rights, organizzazioni umanitarie internazionali come Msf e Oxfam, agenzie delle Nazioni Unite come Oms, Unrwa e Ocha e, infine, la Mezzaluna rossa egiziana. Tutte hanno descritto quello che stava accadendo, già in quel momento, come un quadro apocalittico. Nella Striscia, ci raccontano tutti senza mezzi termini, si sta consumando una catastrofe umanitaria senza precedenti. “Se non si muore per bombardamenti, proiettili e violenze –raccontava il direttore Mezzaluna rossa Khaled Abu Ghoush- si rischia la vita per fame e sete, malattie o infezioni causate da condizioni igieniche insostenibili. È una crisi umanitaria gravissima, un orrore per l’umanità”. E ancora: “Non abbiamo più aggettivi per descrivere quello che sta accadendo dentro Gaza –diceva Richard Brennan, direttore per l’emergenza regionale della World Health Organization– non sappiamo più come definirlo, siamo oltre la catastrofe”.

Dal valico di Rafah, in mezzo alle migliaia di tir con aiuti umanitari scandalosamente fermi sotto il sole, a magazzini enormi con merce il cui ingresso non è consentito per paura che serva a fabbricare armi (stiamo parlando di bombole ad ossigeno, incubatrici, depuratori di acqua etc… ), la delegazione ha ribadito la necessità di un immediato cessate il fuoco, di tutelare l’incolumità della popolazione civile, garantendo la fornitura di aiuti umanitari all’interno della Striscia, e di sostenere ogni iniziativa per la liberazione degli ostaggi israeliani.

Purtroppo da allora a nulla sono valse le richieste della società civile internazionale, né delle istituzioni internazionali come la Corte internazionale di Giustizia o della stessa Onu. A nulla sono valse le proteste sempre più forti, sempre più grandi, di vicinanza al popolo palestinese e di opposizione al governo di Netanyahu, anche all’interno di Israele. Ma tutto questo non deve scoraggiarci dal continuare a chiedere giustizia per il popolo palestinese: non solo il cessate il fuoco, ma anche il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e la fine dell’apartheid. “Vi chiedo di non normalizzare l’orrore di Gaza, vi supplico di amplificare le nostre voci”, ci aveva chiesto allora anche Omar Ghrieb, storico attivista palestinese. Far sentire la propria voce non è inutile, non è solo simbolico, non è solo proprio delle anime belle, è un diritto e, certe volte, è un dovere.

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