Non occorre produrre più cibo, ma produrre meglio e a km 0

I tipi di sprechi collegati alla produzione di cibo vanno da quello energetico a quello delle risorse naturali distrutte o rovinate come i suoli e le foreste, adibite a pascoli per allevamenti. Il report 2019 di Ispra ci dà i numeri e qualche risposta.

La principale causa di spreco alimentare è la sovrapproduzione di eccedenze; ad ogni incremento di fabbisogno, corrisponde un aumento maggiore di offerte e consumi, innescando la crescita dello spreco (+3,2% l’anno). A questo si associa l’aumento delle disuguaglianze (anche in Italia): nel mondo 821 milioni di persone soffrono la fame e 2 miliardi la malnutrizione, mentre quasi 2 miliardi di persone sono in sovrappeso. In Italia per ristabilire condizioni di sicurezza alimentare e ambientale, gli sprechi complessivi dovrebbero essere ridotti ad almeno il 25% degli attuali. Già solo ai rifiuti alimentari sono infatti associate emissioni di gas-serra globali per circa 3,3 miliardi di tonnellate (Gt) di anidride carbonica (CO2), pari a oltre il 7% del totale (nel 2016 51.9 miliardi di tonnellate di CO2). Ispra, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, nel 2019 ha pubblicato il rapporto “Spreco alimentare: un approccio sistemico per la prevenzione e la riduzione strutturali”. La ricerca è frutto di tre anni di valutazione e analisi dei più recenti dati scientifici e informazioni della letteratura internazionale, Giulio Vulcano, ricercatore in ecologia e agricoltura, ci sintetizza alcuni risultati della ricerca complessa su spreco e sistemi alimentari alternativi contenuti nello studio integrale.

 

I sistemi alimentari sono base e condizione di tutte le attività umane. Le strutture agroalimentari industriali e i loro sprechi sono la principale causa di superamento dei limiti planetari di stabilità (fino al 37% delle emissioni climalteranti), oltre cui le devastazioni diventano imprevedibili e incontrollabili, mettendo in grave difficoltà la sopravvivenza della specie umana. 

La dieta è di gran lunga il primo fattore globale di rischio sanitario: due persone su tre soffrono patologie connesse a seri squilibri nutrizionali (denutrizione, malnutrizioni, sovrappeso). Gravissime sono le disparità nella sicurezza alimentare tra Paesi e al loro interno, mentre pochissimi sono i Paesi in condizioni di autosufficienza. 

Il regime agricolo intensivo con lavorazioni meccaniche, fertilizzanti e pesticidi ha reso improduttivi centinaia di milioni di ettari di suoli, erosi o degradati. Vaste zone di foreste (250 milioni di ettari negli ultimi 20 anni), torbiere, prati, pascoli e zone umide continuano a essere eliminate per coltivazioni di olio di palma, soia, cotone, allevamento di bestiame e bioenergia, con enormi emissioni di CO2. 

Una spirale perversa sarà amplificata dalle crisi climatiche ed ecologiche in cui condizioni meteo estreme, come siccità e alluvioni più intense, frequenti e estese o la perdita di impollinatori, portano meno rese, più perdite, un accesso più difficile alle risorse, più disuguaglianze e instabilità, conflitti e migrazioni. Ad esempio si stima il 6% in meno di produzione globale di grano per ogni aumento di 1°C della temperatura media e, anche evitando un aumento di 2° C, la sola temperatura provocherà almeno il 10% di rese in meno delle maggiori colture, cui si sommano i danni di maggiori avversità meteo, idrogeologiche e da perdita di biodiversità. In questo quadro l’area del Mediterraneo è esposta a effetti maggiori della media globale. 

Per affrontare seriamente le minacce serve una visione d’insieme socioecologica che tuteli l’interdipendenza di ambiente e società, tracciando un’economia dei limiti. Un approccio sistemico vede lo “spreco” come un indice di disfunzionalità dei processi alimentari che eccedono fabbisogni raccomandati e capacità ecologiche. Quando si parla di spreco alimentare si pensa ai rifiuti generati per perdita di prodotti dalla produzione al consumo. Vanno però considerate anche altre forme di spreco, meno intuitive, come le perdite nette insite nell’alimentazione di allevamenti con prodotti edibili quali frumento, mais, soia o la sovralimentazione oltre i fabbisogni, la perdita di nutrienti essenziali, gli usi non alimentari di prodotti edibili (es.: biocombustibili) e le perdite prima dei raccolti. Considerando anche sovralimentazione e allevamenti lo spreco arriva ad almeno il 50% della produzione mondiale. A ciò si associa un’impronta ecologica che impiega un terzo delle risorse generate ogni anno. Il contributo climalterante associato a questo spreco “sistemico” potrebbe essere vicino al 20% del totale. I livelli di spreco sono tipici di ogni struttura alimentare. I modelli di sovrapproduzione e spreco agroindustriale si fondano su enorme impiego di energia (da fonti fossili) a basso costo relativo, uniformazione di standard, colli di bottiglia nella distribuzione con grandi operatori che condizionano piccoli fornitori e consumatori, illeciti e occultamento dei costi (bassi prezzi e qualità, danni ambientali, pessime condizioni di lavoro e salute). Allungando le filiere si allontanano i luoghi di produzione dal consumo, si disconnettono le persone dal cibo e dai suoi processi collettivi. Inoltre finanziarizzazione globale e spreco nel Nord favoriscono nel Sud sia perdite in campo per mancata retribuzione ai produttori che insicurezza alimentare per mancato accesso al cibo. 

Confrontando strutture diverse emerge che in filiere corte, regionali e biologiche (vendita diretta in azienda, mercati e negozi degli agricoltori, a domicilio) i rifiuti alimentari prodotti sono circa 3 volte meno rispetto ai sistemi convenzionali. Nelle reti di innovazione agroecologica e della società civile (gruppi di acquisto solidale etc…), i rifiuti alimentari sono circa 8 volte inferiori. Chi si approvvigiona solo con reti alternative spreca un decimo di chi lo fa nella grande distribuzione organizzata. Agroecologia e minor produzione di rifiuti alimentari implicano minori effetti climalteranti e ambientali associati a queste filiere. Le reti mutuali agiscono positivamente perché: riducono intermediazioni, fabbisogni, produzione e consumo, aumentano consapevolezza, garantiscono valori equi e condivisi, gestiscono meglio i pochi avanzi. Bisogna quindi concentrarsi su prevenzione strutturale delle eccedenze e capacitazione sociale, più che su recupero e riciclo, anche per evitare che le eccedenze diventino necessarie e che si crei assistenzialismo. 

Per ristabilire condizioni di sicurezza gli sprechi sistemici vanno ridotti ad almeno un terzo degli attuali nel mondo, perseguendo cooperazione e autosufficienza. Va smontata la retorica che insiste su più produzione per sfamare la popolazione mondiale in crescita, con sempre nuove tecnologie proprietarie che distruggono ecosistemi e società (tecnologie genetiche e digitali, ecc.). Incrociando gli studi scientifici internazionali più avveduti (alcuni Onu) si può delineare uno scenario alternativo in cui la domanda globale al 2050 è garantita dentro le capacità naturali, distribuendo in modo equo: riduzione della pressione demografica (salute e pianificazione riproduttiva condivisa), conversione delle produzioni agroindustriali all’agroecologia su piccola scala con filiere locali, corte o solidali, riduzione del consumo di derivati animali, prodotti iperprocessati, aumentando quello vegetale, azzeramento degli usi industriali di prodotti edibili; riconsiderando produzioni contadine indigene, varietà tradizionali, locali e selvatiche. 

È necessaria la diffusione di organizzazioni democratiche libertarie che in reti globali fatte di comunità locali autosostenibili cooperino in modo paritario, sperimentando innovazione socioecologica. Ciò permetterebbe di aumentare la resilienza dell’umanità di fronte ai gravissimi rischi con cui stiamo appena cominciando a fare i conti.

 

Di Giulio Vulcano

Ricercatore dell’istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale

 

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