Storia (triste) della compravendita di CO2

Vent’anni di tentativi infruttuosi portano oggi a ripensarne i meccanismi

La Cop 25 di Madrid si è conclusa da poco e le nazioni firmatarie non sono state in grado di raggiungere un accordo sulle modalità attuative dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, quello relativo ai meccanismi internazionali di compravendita dei crediti di carbonio. La speranza era quella di arrivare a delle regole condivise e trasparenti per far sì che le nazioni più virtuose in quanto a riduzione delle emissioni potessero “trasferire”, dietro compenso, le loro quote alle nazioni che emettono più gas ad effetto serra. Il concetto in sé è abbastanza semplice: ridurre le emissioni di gas ad effetto serra è più economico in certi paesi che in altri. Creare un mercato dei crediti, in teoria, aumenterebbe l’efficienza del sistema e i benefici per la collettività. Purtroppo il Clean Development Mechanism (Cdm), nato col protocollo di Kyoto ha dimostrato chiaramente che la pratica è molto più complessa della teoria. Ad esempio il Gujarat Fluorochemicals Limited industrial gas destruction facility (Gfl), un impianto creato per eliminare il trifluorometano che la stessa fabbrica produceva come gas di scarto, è stato il primo progetto ad avere ottenuto la certificazione Cer (Certified Emission Reduction) e tra il 2005 e il 2013 ha fruttato all’azienda più di mezzo miliardo di dollari statunitensi. Questo ha spinto l’azienda a produrre più gas di scarto da eliminare in modo da poter generare più crediti di carbonio e quindi maggiori profitti, a scapito delle comunità residenti nei dintorni della fabbrica, soggette agli effetti delle sostanze inquinanti che la fabbrica produceva. Il Clean Development Mechanism verrà sostituito, a partire dal 2020, dal Sustainable Development Mechanism previsto dall’Accordo di Parigi. L’aspettativa, dopo la Cop24 di Katowice, era quella di avere un meccanismo che fornisse delle garanzie di rispetto dei diritti umani, ma durante i negoziati di Madrid questo aspetto è passato in secondo piano e non è ancora stato chiarito quali clausole di salvaguardia verranno adottate nell’ambito del Sustainable Development Mechanism. Probabilmente il principale oggetto della discordia è relativo alla realizzazione di mega-dighe per la generazione di energia idroelettrica che occupano aree estesissime causando migrazioni forzate e gravi perdite di biodiversità e altri servizi ecosistemici. Inoltre i crediti di carbonio sono stati in vari casi trasformati da un sistema per facilitare pagamento per i servizi ecosistemici, a un vero e proprio prodotto finanziario. Questo ha aperto la porta ad aberrazioni che svuotano di senso il principio stesso della compensazione delle emissioni di gas ad effetto serra. Per essere coerenti, le attività di compensazione dovrebbero essere l’ultimo anello di una catena di azioni che prevede la misurazione delle emissioni, l’adozione di misure per ridurle al minimo e infine la compensazione delle emissioni che non è possibile evitare. Purtroppo questo accade raramente e moltissime aziende si definiscono “green” per aver compensato delle porzioni insignificanti delle loro emissioni senza alcuna trasparenza sulla loro “contabilità” delle emissioni. 

Un altro aspetto che mina l’efficacia del meccanismo è il prezzo di mercato del credito, che oscilla in funzione di domanda e offerta e non prende in considerazione le numerose e complesse variabili che stanno alla base delle azioni di mitigazione. Per lunghi periodi il prezzo del credito di carbonio si è attestato ampiamente al di sotto dei dieci euro alla tonnellata. Un valore così basso non tiene in conto i reali costi di cui una comunità deve farsi carico per poter “generare” un credito di carbonio. Un esempio classico sono le azioni di riforestazione in terreni comunitari in zone tropicali. Oltre ai costi vivi (lavorazioni, materiale vivaistico, costi di impianto, manutenzioni post-impianto, ecc.), molto elevati sono i costi legati ai mancati usi alternativi del suolo. Ad esempio nel 2016 abbiamo calcolato, insieme a una comunità dell’altopiano centrale angolano, il potenziale di generazione di crediti di carbonio di un intervento di riforestazione con specie native. Con il valore della tonnellata di carbonio dell’epoca, che era pari a 5-6 euro, la comunità avrebbe guadagnato di più coltivando la superficie da riforestare per due stagioni agricole che con gli introiti generabili dai crediti di carbonio. È senz’altro vero che negli interventi di riforestazione gli introiti derivanti dai crediti di carbonio devono essere integrati dal valore di altri servizi ecosistemici di cui la comunità beneficia, va però tenuto in considerazione che la crescita demografica, la perdita di fertilità dei suoli e gli stessi effetti dei cambiamenti climatici in gran parte delle aree tropicali e subtropicali sta facendo aumentare la domanda di terre arabili e, di conseguenza, il costo opportunità di usi alternativi alla coltivazione del suolo. 

Ma probabilmente il picco dell’incoerenza viene raggiunto in quei casi, purtroppo non rari, in cui chi acquista crediti di carbonio viene definito un “investitore” nel mercato del carbonio. Non si parla in questo caso di intermediari, che acquistano e rivendono crediti, che di per sé è già un’attività che solleva delle domande, ma di chi genera emissioni. Il salto concettuale da “emettitore” a “investitore” non è da poco. Da soggetto che genera un danno alla collettività, a cui deve porre rimedio, chi emette viene trasformato in un soggetto attivo che “investe” in una virtuosa attività di compensazione. Alcuni parlano addirittura della necessità di promuovere partenariati pubblico-privati per rendere “conveniente” investire nel mercato del carbonio. Così da azione volta a compensare un danno generato alla collettività, che necessariamente richiede un impegno economico da parte di chi emette gas ad effetto serra, l’acquisto di crediti di carbonio viene incoerentemente trasformata in un “investimento”, replicando le incongruenze del Gujarat Fluorochemicals Limited industrial gas destruction facility. Un ventennio di esperimenti infruttuosi con meccanismi di mercato dei crediti di carbonio sembra confermare che l’introduzione di una carbon tax, come hanno già fatto ad esempio il Cile, la Norvegia, la Finlandia, la Svezia e l’Olanda, sia il modo più efficace per disincentivare le emissioni e promuovere le innovazioni in campo energetico. La sfida è creare consenso nella collettività sull’importanza di una tassazione delle emissioni di carbonio, ma l’esperienza francese dei gilet gialli mostra che non è affatto semplice.

Il progetto

IL CASO ANGOLA

COSPE lavora nell’altopiano centrale insieme all’Istituto Angolano di Sviluppo Forestale e alle comunità rurali, per promuovere un uso sostenibile delle risorse forestali. Purtroppo l’estensione della frontiera agricola, pratiche selvicolturali inappropriate e i frequenti incendi generano una preoccupante perdita di superficie forestale. L’approccio scelto è quello della gestione partecipativa, dove le decisioni sono il risultato di un processo di apprendimento continuo e di mediazione delle priorità di tra carbonai, apicoltori, raccoglitori di frutti silvestri e altri… L’identificazione di fonti di reddito alternative alla produzione del carbone di legna è fondamentale per conciliare l’uso sostenibile delle risorse forestali con la promozione di un’economia virtuosa. Il “Pagamento per i Servizi Ecosistemici” potrebbe rappresentare un importante incentivo alla conservazione delle risorse forestali, ma le barriere attualmente esistenti, rendono questo approccio poco efficace.

di Massimilano Sanfilippo

 

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