Ad essere razzisti si “impara” da adulti

— Il presidente di Conngi: bisogna ripartire dalla leggerezza dei più piccoli

A parlare di razzismo oggi si fa fatica, non perché latente, non proprio perché evidente e soprattutto invadente le relazioni interpersonali. Ed ecco che quei fatidici “ma” e “però” si fanno strada in un confronto che finisce sempre per perdere il filo del discorso. A navigare nella galassia delle congiunzioni avversative ci si smarrisce e la sensazione è quella di un osservatore che in una notte stellata, fissa il cielo con gli occhiali da sole. Vede ben poco, è incerto, ma è sicuro della sensazione di non intravedere il limite dell’universo. A parlare di razzismo si finisce in un discorso “infinito”, perché le ragioni, giuste, non hanno la costanza e l’uniformità per diventare un’eco credibile, mentre quelle ingiuste, si affidano all’intensa violenza di parole che condannano a priori. E in tutto questo, i giovanissimi, le nuove generazioni italiane, che cosa fanno? Ascoltano, osservano certi adulti che assumono atteggiamenti e linguaggi contrastanti quel che la scuola, e non solo, insegna loro: rispetto, equità e convivenza.

Se non prendiamo atto che il razzismo è un problema degli adulti, e che si presenta da adulti, non potremo arginarne gli effetti e la sempre più precoce adesione. Una via esiste, ed è la migliore congiunzione coordinativa possibile, anzi è l’Italia del futuro che vive nel presente, che deve essere portata a miglior esempio: spesso la disinvoltura con cui i più piccoli vivono le relazioni e le differenze, molte volte sottolineate ed accentuate dai grandi, sono la sentenza inoppugnabile di un’Italia, di fatto, democratica. La nostra preoccupazione deve essere rivolta all’ingerenza dei grandi in quella “leggerezza” che connota le relazioni dei più giovani, che si ritrovano a fare i conti con una complessità imposta come stigma e colpa. Gli italiani con background migratorio sono l’espressione di quel confine che divide i pro e i contro, ma che ha la forza di testimoniare il dialogo e la negoziazione continua, con la ferma certezza che i valori, quelli buoni, di una comunità, sedimentano in qualsiasi spirito fertile. Che la persona porti un velo, abbia la pelle scura, sia nata altrove, non deve pesare, né nel giudizio, né nella costruzione dell’idea di comunità. La leggerezza è data anche dal sottinteso, dal non esplicito, che le nuove generazioni italiane, con background migratorio e non, vivono. Il conflitto, inevitabile, laddove arriva, è condizionato dai cattivi esempi, e quand’anche il razzismo si palesi tra giovani, ha sempre quella veste grottesca e goffa, che allude ad una forzatura non propria. Proprio in questa titubanza bisogna trovare il giusto spazio per riportare in equilibrio il rapporto umano, e prevenire il rischio che le discriminazioni diventino, oltre che arma di offesa, strumento di difesa e strategia per “integrarsi”. Abbiamo l’obbligo morale di coniugare principi e pratica di una Costituzione che ci definisce “popolo” e “cittadini”, per rimuovere gli ostacoli, ancor più quelli di ordine erroneamente “culturale”. Bisogna avere il coraggio delle nuove generazioni italiane, che non temono lo “scontro culturale”, e che non ne fanno uno “scontro di civiltà”, ma semplice introspezione, alla ricerca di nessi per saldare distanze e mitigare contrasti.

di Kaabour SiMohamed
Presidente del CoNNGI (Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni Italiane

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