Sulla sua pelle: il lungo viaggio di Amir

— Discriminato nel suo paese perché omosessuale e in Italia perché nero. Un’odissea che per Amir sembra non finire mai

“Erano in quattro, tutti giovani. Mi hanno chiamato dall’auto come per chiedermi un’informazione, poi, quando mi sono avvicinato, hanno cominciato a insultarmi. Che ci fai qui? Torna al tuo paese! Dicevano. Sono rimasto bloccato e ho detto solo: ma che vi ho fatto?”. Cronache quotidiane di insulti razzisti. Amir (nome di fantasia) 26 anni, arrivato in Italia nel 2016 dal Senegal, racconta con fatica e dolore questo episodio accaduto 4 mesi fa alla stazione Santa Maria Novella di Firenze. Amir è un ragazzone alto e possente, ma nemmeno per un attimo ha pensato di reagire. “Ci ho sofferto molto, ma poi ho pensato che esistono persone stupide a questo mondo, che non capiscono la gravità di questi gesti”. La gravità di questi gesti, che sembrano piccoli ma scavano nel profondo, si sommano a un’altra storia di discriminazione che Amir ha subito nel suo paese per la sua omosessualità, una parola che non riesce nemmeno a pronunciare: “Nel mio paese le persone come me non hanno diritti. Se le persone scoprono il tuo “problema” ti ammazzano. La mia famiglia semplicemente non poteva accettarlo. Infatti è stato mio padre a buttarmi fuori di casa quando lo ha scoperto”. Amir è dovuto letteralmente scappare da un giorno all’altro, quando le voci sulla sua omosessualità stavano diventando insistenti. Aveva un compagno libanese che gli aveva proposto di trasferirsi con lui nel suo paese, ma lui ha preferito prendere la via deserto e lasciarsi tutto alle spalle: “Sono andato in Algeria dove sapevo che c’era una persona che dava lavoro. Sono rimasto lì 6 mesi a lavorare ma non sono stato pagato, sono scappato anche da lì e sono finito in Libia. Stessa cosa. è stato terribile. Poi sono arrivato a Palermo”. Queste sono le parole che questo ragazzo usa in un italiano molto corretto, imparato durante i corsi di italiano e il diploma di scuola media che ha conseguito da poco. Quello che è difficile descrivere e reggere è il suo sguardo, il tono delle sue parole. Gli occhi che si inumidiscono a parlare del suo paese e dei torti che ha subito, il sudore che mentre parla gli cola dalla fronte nonostante l’aria condizionata. “Avevo promesso di non parlare più di quello che mi è accaduto, perché mi fa troppo male. Ma se può servire lo faccio volentieri”. Le offese razziste, in un paese che gli ha finalmente concesso di essere libero come omosessuale e che gli ha dato asilo politico, sono per lui un’enorme contraddizione: “Al mio paese finché non sono stato “scoperto” vivevo bene, nessuno mi offendeva per strada. Qui, dove ho capito di avere dei diritti e di poter vivere in pace, mi scopro diverso perchè sono nero”. “Mi hanno messo da parte solo per il colore della mia pelle”, dice rendendo bene l’idea. Un messaggio per chi ha subito ed è a rischio di subire offese come queste? “Il razzismo è una malattia, difficile da guarire. Il mio consiglio è di non reagire per non scendere sul loro livello e lasciare alla loro coscienza il peso del male che hanno fatto”. Un misto di pacifismo e di rassegnazione nelle parole di Amir che non ha denunciato “Perchè tanto non cambia niente e perché in fondo… sono cose che possono succedere, perché ci sono persone cattive”. Comprensibile per chi ha subito tanti torti, ma anche purtroppo un ostacolo per far emergere questo fenomeno e questo clima insopportabile. Gli episodi di razzismo si moltiplicano, dagli insulti alle violenze, ma sono ancora troppo poco denunciati e conosciuti. E quando si denuncia e non sei né un atleta né una star, al massimo conquisti un trafiletto breve di spalla. La rassegnazione di Amir sta tutta qua. Sta invece alle istituzioni, che le leggi ce l’hanno, dare fiducia a chi come lui subisce ingiustamente e quotidianamente offese e sopraffazioni, solo per il colore della sua pelle.

Leggi tutti gli articoli di questo numero.

Sulla sua pelle: il lungo viaggio di Amir
Torna su