di PAMELA CIONI
“Abolire il Green New Deal in momenti di crisi alimentare è contro il semplice buon senso”
Elena Viganò, professoressa di Economia e estimo rurale all’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, si occupa da tempo di temi legati alla sostenibilità e all’ambiente, un po’ per professione un po’ per passione: dopo una laurea in Agraria a Perugia, una specializzazione al Centro di specializzazione e ricerche economicoagrarie per il Mezzogiorno e un Dottorato in Economia agraria all’Università di Napoli Federico II, ha cominciato a interessarsi a questioni che allora stavano appena cominciando a emergere, anche relativamente al cambiamento climatico: “Era la fine degli anni ’80, anni cruciali in cui si sarebbe già dovuto prendere decisioni politiche per cambiare il corso degli eventi ma che ancora oggi stentiamo ad attuare.”
È dunque da fine anni ’80 che lei si occupa di sostenibilità e anche di commercio equo, un’antesignana.
Ma non direi… La definizione di sostenibilità, come la intendiamo oggi, nasce nel 1987, ma già molto prima, il Club di Roma aveva pubblicato il Rapporto sui limiti dello sviluppo (il Rapporto Meadows, del 1972). Un documento che definirei profetico, ma che è stato recepito quasi esclusivamente nelle nicchie dei movimenti ambientalisti. Per motivi personali ho cominciato a occuparmi di ambiente e di commercio equo e solidale. Il mio pensiero e le mie scelte si sono radicalizzati una volta arrivata a Urbino (dove attualmente lavoro) a fine anni ’90, anche grazie all’aver conosciuto alcuni imprenditori biologici, in particolare Gino Girolomoni. Cominciando a frequentarli, ho potuto approfondire ulteriormente il tema del giusto prezzo per chi lavora in agricoltura, trovando le stesse criticità nei Paesi del Nord come in quelli del Sud del mondo: il modello di agricoltura industriale, le trattative Wto per la liberalizzazione degli scambi e l’affermazione di supply chain globali innescavano le medesime drammatiche conseguenze, a prescindere dalla collocazione geografica. Questo non era così evidente come ora, ma i segni erano chiari. Non so se eravamo troppo in anticipo…
Oggi è ancora necessario lavorare su questi temi. Ma come si sono trasformati nel tempo e come si possono affrontare?
Direi che si sono progressivamente esasperati. Qui a Urbino abbiamo organizzato Corsi di alta formazione su temi d’interesse per il commercio equo e solidale, sulla cooperazione, su agricoltura biologica e agroecologica (anche in collaborazione con COSPE ndr), con organizzazioni del terzo settore e con imprese del territorio. Negli ultimi anni, queste esperienze sono confluite in progetti sullo sfruttamento dei migranti nelle filiere agroalimentari e di cooperazione internazionale in Tunisia. Lo sfruttamento del lavoro, ad esempio, ha molteplici fattori determinanti, uno è la bassa redditività in agricoltura. In altre parole, ci sono dei margini talmente bassi che alla fine per riuscire a stare sul mercato si sfrutta la terra e/o il lavoro (su queste tematiche vedi inserto ndr). Non è chiaramente una giustificazione. E questo è valido anche in Italia, nonostante alcuni significativi passi in avanti, come, ad esempio, le leggi sul caporalato o sulle doppie aste al ribasso. Ma il problema dei prezzi rimane ed è centrale: basta vedere le pubblicità di alcune grandi catene di distribuzione, come è possibile mantenere i prezzi così bassi e conciliarli con la (presunta) qualità dei prodotti?
E in Tunisia cosa ha fatto l’Università di Urbino?
In Tunisia abbiamo contribuito a definire criteri di finanziamento per sostenere/ creare start-up del sistema agro-alimenalimentare in una delle zone più povere del paese (quella del Nord-Ovest, al confine con l’Algeria), con l’idea di cominciare a creare filiere locali – perché si tratta di aziende piccolissim e- con progressiva conversione al biologico, all’integrazione verticale e alla diffusione di modelli di economia solidale. Ma promuovere processi produttivi sostenibili in termini ambientali, sociali e anche economici richiede facilitare l’accesso alla conoscenza e alla formazione. E su questo c’è da lavorare moltissimo. Tutte queste esperienze hanno confermato, se ce ne fosse stato ancora bisogno, come il problema sia sempre lo stesso: un modello di produzione, scambio e consumo “radicato” in una forte sperequazione tra grandi e piccole imprese, tra zone più o meno svantaggiate, tra agricoltori e imprese che gestiscono altre fasi della filiera (intermediari, grossisti, trasformatori, distributori)…
Tra agricoltura industriale e agricoltura biologica ci sono differenze in termini di redditività e di costo per il consumatore?
Non c’è una risposta semplice. Ad esempio, fino a qualche mese fa, la differenza di prezzo tra grano biologico e industriale era abbastanza “interessante”. In questo momento, entrambi i prezzi stanno crescendo a causa di una serie di fenomeni (anche speculativi) legati alla guerra tra Russia e Ucraina, però si stanno progressivamente avvicinando. Ciò significa che il biologico sta perdendo “attrattività”. D’altra parte, per far fronte alla crisi alimentare da più parti si sente ripetere che la risposta può venire solo dall’agricoltura industriale. Dimenticando, innanzitutto, che questo modello utilizza concimi e pesticidi chimici di sintesi o mezzi di produzione di origine fossile che importiamo anche dai Paesi in conflitto, con un impatto notevole sul livello dei costi di produzione. Per non parlare degli effetti negativi sull’ambiente (perdita di biodiversità e di fertilità dei suoli, inquinamento delle risorse naturali, …), sul clima e sulla salute. Un vero circolo vizioso.
“All’emergenza alimentare ci siamo arrivati a causa di scellerate scelte produttive, istituzionali e politiche. E stiamo perseverando”.
Sembra invece che l’attuale emergenza giustifichi in qualche modo un ritorno al passato. Ad esempio, l’Unione Europea ha messo in stand by il Green New Deal. Ma secondo lei ha un senso o è strumentale?
Direi che è puramente strumentale. Noi abbiamo perso almeno trent’anni nella definizione di politiche per la sostenibilità. Il Green New Deal era un importante strumento, forse anche troppo light, per tentare invertire la rotta. Adesso invece siamo allo stallo. Negli ultimi decenni, abbiamo trasferito a qualsiasi latitudine il modello di agricoltura proposto dalla green revolution, rendendolo il riferimento assoluto. Questo modello ha generato tutte le esternalità di cui sopra, che si sono amplificate tantissimo con i cambiamenti climatici, e, grazie anche a provvedimenti politicoistituzionali direi quantomeno irresponsabili, i paesi più poveri (agricoli) sono arrivati a dover dipendere dall’estero per i propri approvvigionamenti alimentari. La cosiddetta Mezzaluna fertile, ad esempio, che comprende i paesi dove sono nati i diversi tipi di frumento, ora importa cereali. Perché? Come rispondere ora a questa emergenza? È difficile dire adesso “facciamo agricoltura biologica”, perché la conversione avrebbe dovuto cominciare molto tempo fa. Gradualmente.Oggi, proprio per la mancanza di mezzi (combustibili, pesticidi, fertilizzanti) alcune realtà stanno consolidando la loro presenza nel sistema dell’agricoltura biologica, anche se magari le colture potrebbero essere meno produttive, specialmente se non si investe sulle attività di R&S (Ricerca e Sviluppo ndr). Per questo in Italia è stata molto importante l’approvazione della legge sull’agricoltura biologica perché consente di finanziare una ricerca finalizzata a risolvere le diverse criticità di questo modello produttivo che, ricordiamolo, è, in assoluto, il più sostenibile. Quello che mi preme dire, in ogni caso, è che all’emergenza alimentare ci siamo arrivati con un certo percorso, a livello produttivo, a livello istituzionale e a livello politico. E stiamo perseverando.
Quali sono le maggiori criticità per l’affermazione di una vera transizione ecologica in Europa in questo momento storico?
In questo particolare momento storico, il problema principale è, secondo me, la non adozione di politiche e provvedimenti netti nella direzione della transizione ecologica. Ad esempio, non si fa abbastanza per limitare l’enorme spreco di risorse, soprattutto nei paesi più ricchi. Lungo le filiere agroalimentari alcune stime indicano quote intorno al 30-40% della produzione. Al di là della dimensione etica, questo ha dei costi sociali e ambientali enormi, anche in termini di emissioni di gas serra. Eppure dai segnali che stanno arrivando, l’aumento delle temperature, la crisi idrica, il collasso della biodiversità, mi pare evidente che non abbiamo proprio altra scelta per non superare il punto di non ritorno. E invece, in Europa, in piena pandemia viene approvato il Green New Deal, frutto di un interessante processo partecipativo che definisce un quadro di riferimento orientato alla sostenibilità per molteplici politiche. Poi scoppia la guerra e torniamo indietro, rallentando a revisione profonda dei modelli di produzione e di consumo indispensabile per garantire un futuro alle future generazioni e, direi, anche a quelle attuali. Una strategia decisamente contraria anche al semplice buon senso. Come quando negli Stati Uniti, per ridurre i morti da armi da fuoco nelle scuole si propone di armare gli insegnanti…
E il commercio equo e solidale, oggi che fine ha fatto? Quale ruolo può avere in questo contesto?
A mio parere questo modello resta una buona alternativa che però ha un ruolo prettamente simbolico, così come molti altri movimenti di agricoltura “alternativa”. Modelli di sostenibilità ambientale e sociale che sono rimasti troppo di nicchia, lasciando alla GDO tutti gli spazi di mercato, attraverso il controllo delle supply chain. Per cui ora, dove si acquista il cibo, anche quello che si ritiene essere di qualità? Al supermercato, mentre al mercato si trovano prodotti provenienti da chissà dove… Tante sono le cause di questo processo di “mimetizzazione”, ma tra queste vi è anche la tendenza, da parte dei movimenti che dovevano costruire l’alternativa al modello mainstream, a non considerare con sufficiente attenzione la dimensione economica. Per stare sul mercato ed essere indipendenti da finanziamenti esterni, ci vogliono conoscenze e competenze adeguate ma ancora prima è necessario essere convinti dell’importanza di rendere economicamente sostenibili le attività delle diverse organizzazioni o dei diversi progetti. Basare tutto sul volontariato o sulla “buona azione” non serve. Così gli spazi di “commercio giusto” sono stati occupati da altri. E questo vale anche per molte altre esperienze di Alternative Food Networks, che abbiamo studiato in questi anni, ad esempio per l’inclusione lavorativa dei migranti o di persone con particolari fragilità.
Cosa si poteva o doveva fare?
Dal mio punto di vista, innanzitutto, studiare e acquisire professionalità, in diversi ambiti, a partire da quello economico. Quindi, competenze gestionali, di finanza aziendale, di marketing, per adattare questi strumenti alle necessità delle diverse organizzazioni. Forse si sarebbe riusciti a non arrivare a vendere prodotti su Amazon… E poi la creazione di reti collaborative con realtà che condividono gli stessi valori. Questo vale, in generale, per le filiere agroalimentari. Le imprese agricole, in Italia, restano piccolissime e con scarsa propensione all’aggregazione, sia verticale che orizzontale. E così non si va nessuna parte, specialmente nell’attuale contesto. Credo che il mito del “piccolo è bello” sia stato un po’ troppo esasperato: se non cooperi, se non si costruiscono alleanze, come si può resistere?