di ROBERTO DE MEO
Dafne Chanaz, docente universitaria, cuoca e giornalista, è autrice di numerosi libri e di diversi documentari Rai su cibo locale, cosmesi naturale e piante selvatiche. Anima a Roma la “Casa del Cibo” una scuola di cucina popolare dove, grazie a una rete di amici contadini e nonne sapienti, partendo dai fondamenti del pensiero ecologista, continua a fare ricerca e divulgazione di buone pratiche. Nel 2021 è uscita con un libro, “Il prato in tavola. Piante selvatiche commestibili d’Italia”, dove illustra gli usi medicinali e gastronomici di 80 piante selvatiche buone da mangiare. Perché “commestibile” non significa solo che “si può”, ma anche che è buono da mangiare, e le ricette che propone nel libro sono tutte gustose e accattivanti. Ci sentiamo con Dafne, per parlare proprio di questo tema, fino a pochi anni fa meno noto, oggi assai di tendenza nei ristoranti pluristellati, ma anche tornato all’attenzione di molti per il suo valore in farmacopea, in nutraceutica in ecologia; e – non ultimo – per l’aspetto economico.
Dafne, a quale figura ti senti più vicina: a un’antica fattucchiera o a una moderna scienziata?
Certamente più a un’antica fattucchiera: le tradizioni contadine, a mio avviso, hanno una qualità ecologica e una quantità di sapere più sostanziosi rispetto a quello che abbiamo sviluppato con i saperi moderni. Siamo passati troppo velocemente all’agricoltura industriale, abbiamo perso le conoscenze delle nostre antenate, abituate a fare direttamente le cose, a sporcarsi le mani di persona. Bisogna recuperare la manualità, reimparare a compiere gesti, a differenza di quanto facciamo oggi quando deleghiamo ad altri le conoscenze (e le scelte) del sapere specialistico.
Ma tu come sei arrivata a questo, che percorso hai fatto?
Intanto sono cresciuta in campagna, in un casale di famiglia, vivendo un po’ allo stato brado e avendo una forte sintonia con piante e animali, stabilendo una relazione reciproca con la natura. Poi, per la mia tesi di dottorato in urbanistica, che intitolavo “Topi di città e topi di campagna”, ho iniziato a fare ricerche in fattorie, presso i contadini, nei mercati, con tante letture e approfondimenti, dove mi è nata una forte passione. Ho svolto questa ricerca sul mondo del cibo industriale opposto al mondo del cibo “vero”, quello offerto dalla natura. Al buffet per la mia tesi di laurea sono venuti dei contadini che hanno portato una frittata di fiori di campo per tutti. Poi ho seguito vari corsi, di erboristeria, di panificazione con la pasta madre, ho sempre sfruttato tutte le opportunità per approfondire queste tematiche: lavorando per la Rai ho conosciuto anziane contadine, apicoltori, gente che faceva i mestieri tradizionali, e ho domandato, approfondito, ricercato. Ora insegno agli studenti “Cultura e politica del cibo”, ho occasione di visitare aziende agricole, dove mi aggiorno di continuo nell’incontro con presìdi e persone. Ancora non lavoro a tempo pieno con le erbe selvatiche, ma sto immaginando una linea di preparati da mettere in vendita.
Partiamo dalla salute per capire l’importanza delle erbe selvatiche.
Su questo punto bisogna considerare due aspetti: sia l’importanza delle erbe come rimedio che il loro valore sul piano nutraceutico. Sono due aspetti tra loro complementari che si evidenziano in due momenti differenti. Per esempio, mangio la calendula e ne ottengo dei benefici, ma poi ne faccio anche un oleolito con cui posso curarmi. Le erbe selvatiche, a differenza delle medesime coltivate, hanno sapore e proprietà nutraceutiche più intensi: questo perché si devono difendere dalle competitor in un ambiente aperto, quindi sviluppano moltissimo il sapore e le qualità peculiari che sono le loro armi ecologiche e contro i parassiti. In poche parole per sopravvivere devono realizzare a pieno il loro potenziale. Le proprietà nutraceutiche di tutte queste piante sono importantissime per combattere problemi di salute caratteristici dei nostri tempi, come la glicemia alta o il colesterolo, sono quasi tutte diuretiche, depurative e antiossidanti. Un esempio ci viene dai pastori masai che, essendo pastori nomadi, mangiano esclusivamente prodotti animali, ma hanno sempre goduto di ottima salute perché assumono sotto forma di tè o di spezie oltre 40 piante con potere antiossidante.
E per l’ambiente, che importanza hanno?
Anche qui possiamo considerare due aspetti. Il primo è il ruolo che svolgono come bioindicatori. Il centocchio per esempio, a seconda che cresca troppo o troppo poco, indica un terreno troppo concimato o troppo sfruttato. C’è poi una questione di risparmio energetico, raccogliere erbe selvatiche rappresenta un modo di procurarsi il cibo a impatto meno di zero. In agricoltura impieghiamo 10 calorie per produrne una. Con le erbe selvatiche in soli 20 minuti di raccolta sono in grado di preparare una cena a base di risotto alle ortiche, insalata di papavero e parmigiana di cardo mariano.
Infatti, anche in cucina c’è una grande riscoperta del loro impiego a scopo gastronomico.
È una tendenza legata al nostro bisogno di riconnetterci con la natura. Le piante selvatiche sono un dono che ci mette in relazione con madre natura, per questo direi che non si tratta solo di una moda, ma soprattutto di un’esigenza della psicologia collettiva. Le erbe selvatiche offrono note di sapore assolutamente uniche, per un cuoco rappresentano una nuova sinfonia di sapori variegati e stupefacenti. Penso a un gelato con il Tordylium Apulum, l’ombrellino pugliese, veramente strabiliante, per uno chef si aprono degli orizzonti vastissimi. Ciascuna erba ha un suo sapore particolare, per questo nel mio libro non ho voluto parlare di misticanza, ho voluto invece esaltare il potenziale che ha ciascuna di loro.
Tu definisci il tuo libro “un corso di lingue”: occorre una lingua nuova per un sapere antico?
Bisogna considerare la natura come soggetto e non come oggetto. A me le piante dicono qualcosa, le tocco, chiudo gli occhi, le assaggio e loro mi parlano. Cerco di tradurre le loro proprietà, ascoltandone anche la vibrazione. Ho fatto anche dei pezzi di teatro mettendo in scena le piante, cercando di rappresentarne la personalità.
Ma non ci sono rischi nella raccolta delle erbe spontanee?
Sì, meno nelle asteracee, di più tra le ombrellifere dove si trova anche la cicuta. Non bisogna mai raccogliere una pianta se non si è sicuri. Bisogna iniziare andando con gli anziani (o con dei botanici), che sappiano confermare quello che abbiamo raccolto. Bisogna raccogliere solo quelle di cui siamo certi, iniziando da alcune e ampliando gradualmente la conoscenza di altre. C’è un forum che può essere utile e si chiama Acta Plantarum.
Tu prima dicevi che ancora non sei riuscita a fare di tutto questo un lavoro a tempo pieno, ma ci stai provando. Pensi che la raccolta delle erbe spontanee possa rappresentare, in Italia o all’estero, un’opportunità per la crescita dell’autonomia delle donne, nella creazione di modelli di piccola imprenditoria che forniscano loro un certo grado di sostentamento economico e affrancamento da posizioni subordinate?
C’è un importante valore aggiunto nella trasformazione e nella vendita di queste erbe. Per donne e aziende agrituristiche possono essere importanti fonti di reddito. Una donna che conosco, che possiede un’azienda agrituristica in Valnerina, durante il lockdown si è messa a raccogliere e a vendere erbe selvatiche e con questo si è creata un reddito per tirare avanti in quel momento così difficile; ora ne ha fatto un’attività vera e propria. Un’altra donna, in difficoltà perché il marito beveva, si è messa a vendere cicorie selvatiche e con quello che guadagnava ci ha tirato su i figli. Sono esempi piccoli di storie individuali, ma altamente significativi.
Cosa vorresti dire a quelli che ci stanno leggendo?
Provate a raccogliere un’erba selvatica (di cui siete sicuri), toccatela, annusatela, gustatela. Non vedrete mai più un prato con gli stessi occhi.