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Che fine hanno fatto i diritti umani?

L’emergenza ha ricompattato i movimenti sociali. E ora si denunciano le violazioni. 

 

L’emergenza sanitaria in Ecuador ha fatto emergere con estrema gravità le debolezze strutturali di un paese e di una classe politica che ha anteposto la battaglia contro fantasmi del passato alla reale necessità del popolo ecuadoriano. Ma c’è un fatto positivo che l’emergenza Covid-19 ha indotto in maniera quasi immediata: il ricompattamento dei movimenti sociali, in particolar modo delle organizzazioni a tutela dei diritti umani, attorno all’obiettivo di dar voce alle aree più remote del paese, quelle abitate da popolazioni indigene, attraverso una campagna di informazione e denuncia sulle minacce, le violazioni e i rischi a cui sono esposte le comunità anche in tempi di emergenza sanitaria. Il 16 marzo scorso, con un decreto, il Governo ha proclamato su tutto il territorio nazionale lo “stato di eccezione”, che per definizione prevede la sospensione temporanea di alcuni diritti e libertà costituzionali. La Alianza para los Derechos Humanos de Ecuador, una piattaforma che raccoglie 19 organizzazioni, ha emesso in due mesi 26 comunicati di emergenza, per denunciare specifiche o sistematiche violazioni dei diritti umani registrate durante il regime di quarantena nelle comunità indigene appartenenti alle 15 nazionalità presenti in Ecuador (il 7% della popolazione totale). Attualmente la “Alianza” sta ordinando e classificando l’enorme quantità di informazioni raccolte, consultabili sul sito https://ddhhecuador.org/, in vista della presentazione di un rapporto dettagliato alla Cidh (Commissione Interamericana per i Diritti Umani), accompagnato da una richiesta urgente di riunione con la Relatrice Speciale per i diritti dei popoli indigeni, Antonia Urrejola. Il 26 marzo 2020, la “Alianza” e le due più importanti piattaforme indigene dell’Ecuador, Conaie e Confenaie, hanno presentato alla Presidenza della Repubblica, al Ministero della Salute a alla Secretaria de Riesgo (l’equivalente della Protezione Civile), una richiesta urgente per riconoscere le nazionalità indigene come popolazione specialmente vulnerabile di fronte alla pandemia. Tale richiesta esigeva l’adozione di misure urgenti e tempestive, culturalmente appropriate e da definire in collaborazione con le autorità indigene locali. Tra le richieste avanzate c’era anche quella di chiudere immediatamente le imprese estrattive, per il pericolo che la presenza di persone estranee alle comunità potesse incrementare la diffusione del contagio. Il decreto del 16 marzo infatti, aveva riconosciuto l’industria estrattiva come settore strategico e prioritario per il paese, di conseguenza escluso dalle restrizioni imposte con l’entrata in vigore del lockdown. Di fronte all’assenza di una risposta da parte del Governo, le comunità indigene si sono auto-organizzate per elaborare in maniera autonoma piani di prevenzione e contrasto dell’emergenza basati su tre pilastri: la creazione di cordoni sanitari, con il ricorso alla guardia indigena per garantire l’isolamento delle comunità ed evitare la propagazione del contagio; l’elaborazione e diffusione di informazioni sul Covid-19 in lingua nativa ed il rafforzamento delle pratiche di medicina ancestrale; la gestione di aiuti umanitari attraverso canali di solidarietà nazionali ed internazionali indipendenti del Governo. Tali misure non hanno evitato la diffusione del contagio. La quasi totalità dei focolai registrati nelle comunità indigene, che sfuggono alle statistiche ufficiali per l’assenza di tamponi, sono collegati a casi introdotti da personale riconducibile alle imprese estrattive, che in periodo di quarantena hanno intensificato le loro attività. Ad aprile si sono registrati contagi nelle comunità Chachis e Awa, territori di giacimenti d’oro e argento con forte presenza di miniere illegali. Gli Shuar hanno denunciato in quel periodo i primi due decessi collegati al Covid-19: le vittime erano i genitori di due leader comunitari favorevoli ai progetti estrattivi, che in febbraio avevano partecipato ad una conferenza organizzata in Canada dalla impresa SolarisResources/Equinox Gold. Dalla nazionalità Siekopai hanno riportato, nello stesso momento, 20 contagiati ed un morto, in un territorio in cui le imprese petrolifere non hanno mai cessato le perforazioni. La nazionalità Kichwa ha dichiarato 3 casi di Covid-19 tra i lavoratori del pozzo Edén-Yuturi di Petroamazonas, in cui la turnazione del personale è avvenuta costantemente senza protocolli di sicurezza. Stessa situazione per la etnia Waorani, nazionalità solo recentemente uscita dall’isolamento volontario, che ha denunciato 2 casi tra i dipendenti del blocco 16 della Repsol, un territorio tra l’altro in cui hanno accesso anche i Tagaeri/Taromenane, l’ultimo gruppo in isolamento volontario in Ecuador. Un caso particolare poi è quello delle nazionalità Siona e Cofan, abitanti al confine tra Ecuador e Colombia, intimidite anche dal gruppo paramilitare “La Mafia” presente nella regione di Putumayo, che ha minacciato di uccidere qualsiasi persona che presenti sintomi da Covid-19. Nel silenzio del Governo dell’Ecuador, questi ed altri casi di violazioni saranno oggetto della udienza speciale presso la Cidh, con la profonda speranza che un organismo sovranazionale abbia la capacità di imporre misure di protezione reale nei riguardi di comunità che iniziano a dichiararsi a rischio di etnocidio.

 

di Francesco Bonini | aprile 2020

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