Quando la narrazione è di parte

I principali esperti militari sostengono che le strategie di comunicazione siano fondamentali nelle guerre moderne. Rispetto a quanto accade in Palestina e in Israele ne abbiamo parlato con Chiara Cruciati, vicedirettrice del quotidiano Il Manifesto. 

Quanto peso assume la questione della narrazione nelle vicende storiche e nel contesto attuale palestinese, caratterizzato dal colonialismo di Israele?

Sul controllo di una terra, sul riuscire a rimanere su quella terra, ci si scontra e c’è anche uno scontro di narrazioni, di modi di rappresentare sé stessi. La narrazione di sé è allo stesso tempo una fonte di identità, ma dà anche voce a questa identità. Questo è tanto più vero in un contesto coloniale, dove la negazione dell’altro, la negazione dell’oppresso come popolo è uno degli strumenti di base e strutturali del sistema di depredazione e assoggettamento. Israele ha sempre dato un’immagine mitica di sé: il popolo senza terra, una terra senza popolo, Davide contro il Golia arabo, il popolo eletto che ritrova la terra promessa. Una narrazione che ha anche affascinato tantissime persone, anche a sinistra negli anni del socialismo sionista.  Allo stesso modo, dall’altra parte c’era il popolo palestinese, che, quando il movimento sionista iniziò ad arrivare nella sua terra, aveva già sviluppato una forte identità nazionale e nazionalista: quindi c’era già una coscienza di sé come popolo. Questa identità, che i palestinesi avevano e che hanno ancora, ha avuto la necessità di essere riconosciuta da fuori e quindi sono passati alla scelta di utilizzare, per narrare sé stessi, un linguaggio riconosciuto, condiviso e quindi inattaccabile: quello del diritto internazionale. I palestinesi hanno fatto sempre riferimento a questo nel loro movimento di liberazione nazionale.

Cosa è accaduto poi negli anni?

Negli anni, però, questo modo di narrarsi, di narrare il proprio diritto all’autodeterminazione, è stato tacciato di parzialità, delegittimato e contestato. Per decenni si è discusso su quali parole utilizzare: resistenza o terrorismo, territorio occupato o territorio conteso etc… Ma i palestinesi, da tanti anni ormai, sono passati a definire con chiarezza il regime a cui sono sottoposti: regime di apartheid, di colonialismo e, più di recente, anche genocidio. E ora quel linguaggio è diventato comune per tantissimi che, per anni, non hanno mai osato utilizzare queste parole. E chi negli anni ha usato queste parole, oggi si ritrova, anche grazie alla Corte Internazionale di Giustizia, “legittimato”: non si tratta più di “pericolosi estremisti”, perché lo ha detto la più alta Corte internazionale che quello in corso è un genocidio plausibile. Ma, se quel linguaggio è entrato nella narrazione globale non si può dire lo stesso del sistema mediatico, che continua a non riconoscerlo come legittimo, con la conseguenza di non riconoscere appieno i diritti del popolo palestinese.

Come considera il sistema mediatico?

Rispetto ai media, i palestinesi sono sottoposti a due livelli di violenza: mediatica e semantica. Da una parte c’è la violenza israeliana, dall’altra parte c’è quella occidentale. Chiunque abbia avuto la possibilità di andare in Israele in questi mesi, comprando un giornale o accendendo la tv si è trovato di fronte a un sistema mediatico che è parte integrante dello sforzo bellico: nella stragrande maggioranza dei media mainstream israeliani (poi ci sono ovviamente delle egregie eccezioni), scompaiono i civili palestinesi. Gaza c’è attraverso le operazioni dell’esercito israeliano, ma non si vedono le distruzioni, non si vedono gli effetti sui civili. Si amplifica il sentimento di paura, di rabbia, di vendetta, ripercorrendo in maniera quasi ossessiva quello che è avvenuto il 7 ottobre. In Italia, nella grande maggioranza di casi (anche se anche qui con delle eccezioni), la stampa opera attraverso un sistema molto semplice, adottando la narrazione israeliana e anche il suo modello, ovvero un approccio coloniale e razzista.

Ci può portare qualche esempio?

Nei nostri media non ci sono voci palestinesi, inoltre c’è un uso tipico del linguaggio del vocabolario israeliano. Per esempio, i palestinesi “muoiono”, ma mai “vengono uccisi”. Qualche giorno fa ho letto su un importante giornale italiano a proposito del fuoco aperto su quelle centinaia di migliaia di sfollati che stavano tentando di arrivare a nord di Gaza, il titolo “Morti di Esodo”. Mi sono detta: “forse ci sarà stato un tamponamento sulla A1”. Ma ancora più grave è che spesso si equipara il popolo palestinese ad Hamas, di conseguenza legittimando l’uccisione in massa dei civili, e sottorappresentando i crimini di guerra in atto.

Questo il presente. Ma ci vede effetti più a lungo termine?

Questa narrazione ha l’effetto di criminalizzare qualsiasi voce politica di dissenso. Credo che quello a cui stiamo assistendo in questi mesi, rispetto alla mobilitazione degli studenti e delle studentesse italiane, sia veramente molto esplicativo: sui giornali si è parlato di devastazione della città, di guerriglia urbana, di brigate antisemite, ma la stessa stampa che ha definito brigatisti questi studenti poi sta lì a fare distinguo su distinguo sul concetto di genocidio, di fronte allo sterminio di almeno 35mila persone. 

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