Manteniamo viva la memoria, lottiamo per il presente

A causa degli eventi tragici del 1948 nella Palestina storica, sono tante le comunità palestinesi presenti in diversi paesi del mondo. Al loro interno, la componente giovanile è sempre più protagonista, con visioni e proposte innovative. Ne parliamo con Laila Hassan, rappresentante dei Giovani Palestinesi in Italia e ricercatrice presso l’European Legal Support Center, organizzazione che difende i diritti dei palestinesi in Europa.

Il mondo intero oggi guarda solo alla strage del 7 ottobre e al massacro in corso nella Striscia di Gaza, la questione palestinese dura da molti decenni. Qual è il punto di vista della diaspora palestinese in Italia?

Da 76 anni, dall’inizio del progetto coloniale sulle nostre terre, la nostra lotta ha sempre avuto come obiettivo quello di rendere giustizia a chi prima di noi ha combattuto per la libertà e per l’autodeterminazione. Costretti alla condizione dell’esilio – condizione differente dalla diaspora – da quattro generazioni manteniamo viva la memoria di ciò che siamo stati: la nostra cultura, le nostre tradizioni, il ricordo delle nostre case, il nostro passato. Crescere in diaspora, soprattutto in un paese occidentale, è una sfida molto complessa, perché ci si scontra con la realtà di una società profondamente razzista, islamofoba e ancora incapace di vedere nelle nuove generazioni di figli di immigrati una possibilità di cambiamento. In questi mesi abbiamo visto come la repressione delle manifestazioni, la limitazione della libertà di espressione, si concentrino maggiormente sulle persone razzializzate. Il razzismo anti-palestinese di oggi è il risultato di quasi 30 anni di “guerra al terrore” che ha reso la vita delle comunità arabe e delle persone musulmane in Europa un vero e proprio inferno. Ancora oggi siamo costretti a spiegare che la nostra cultura, le nostre tradizioni hanno dignità e meritano rispetto al pari di qualsiasi altra. Il nostro impegno in Italia è sempre stato legato a mantenere viva la lotta di liberazione, di continuare a fare pressione sui governi affinché avvenga un cambio di posizionamento nei confronti di Israele. In quanto figli di rifugiati, e nipoti di sopravvissuti della Nakba abbiamo una grande responsabilità: continuare a tramandare la storia e le rivendicazioni palestinesi.

I giovani palestinesi sono impegnati a proporre soluzioni e contributi nuovi rispetto allo stallo della diplomazia internazionale. Puoi parlarcene?

Noi siamo la generazione post-Oslo, cresciuti in un momento storico in cui abbiamo visto negli ultimi 30 anni il fallimento di un tentativo di “pace” che ha portato solo alla cristallizzazione della realtà in Palestina e alla situazione che oggi è sotto ai nostri occhi. La nostra generazione è quindi cresciuta con la consapevolezza che i compromessi portati avanti con Oslo non solo non hanno ottenuto i risultati sperati, ma hanno contribuito al deterioramento della situazione. Quindi, la nostra generazione cresce con l’idea che il compromesso non è possibile, e bisogna riappropriarsi di un linguaggio più adatto a descrivere il contesto palestinese. Questa frattura generazionale rende complicata anche la relazione con i nostri genitori, spesso ancorati a un’idea di Palestina superata dalla realtà. Oslo, la fine di un certo tipo di solidarietà internazionale e l’avvento del sistema della cooperazione internazionale hanno portato a una progressiva depoliticizzazione della questione palestinese. Oggi, invece, esiste una generazione di giovani impegnata ad analizzare la situazione palestinese e a rivendicare con estrema chiarezza la necessità di un processo decoloniale, che deve essere portato avanti dai palestinesi. Anche la Palestina è oggetto dell’approccio white savior, che alimenta la visione di un “oriente incivilizzato e primitivo” e il bisogno di un intervento da parte dall’occidente libero e democratico. Inoltre, il fallimento del diritto internazionale e delle sue istituzioni mette maggiormente in discussione l’approccio occidentale alla questione palestinese. Oggi la gioventù palestinese, come il Palestinian Youth Movement negli Stati Uniti, i Giovani Palestinesi d’Italia, la Palestine Speaks in Germania ed altri movimenti, convergono sulla necessità di un cambiamento, che potrà avvenire solo se saranno i palestinesi e i nostri alleati a dirigere il discorso politico.

Come per tutte le questioni che riguardano l’organizzazione sociale, a maggior ragione in condizione di occupazione militare e civile del territorio, anche quella palestinese ha delle forti implicazioni di genere, con specifiche conseguenze sulla condizione delle donne…

Come può la società palestinese avanzare nella sua organizzazione interna, se è costretta a concentrarsi nel sopravvivere al tentativo della sua cancellazione messa in atto da Israele? Nonostante ciò, le donne palestinesi hanno sempre avuto un ruolo centrale nell’organizzazione politica della resistenza, sin dalla lotta contro la presenza coloniale inglese in Palestina. Già negli anni ’30 nascono i primi comitati di donne, che partecipano alla vita politica. Sono riuscite, negli anni, ad essere la spina dorsale della società, ricoprendo tutti i ruoli necessari per far funzionare la struttura sociale, soprattutto in fasi critiche come la prima e la seconda Intifada, dove la maggior parte degli uomini prendevano fisicamente parte allo scontro con l’esercito israeliano, finivano in carcere o perdevano la vita per mano dell’occupazione. Nell’attuale contesto in Palestina, le donne e le soggettività queer sono i segmenti della società che subiscono maggiormente le conseguenze della violenza sistematica del progetto coloniale israeliano. Uno degli stratagemmi della propaganda israeliana è elevarsi a grande democrazia del Medio Oriente, unico paese nel sud-ovest asiatico dove si celebra il Pride; ma come scrive il collettivo Queers4palestine: “There is no Pride in Genocide”.

La violenza coloniale ha causato oggi la morte di 10.000 donne, di cui almeno 6.000 madri, secondo i dati Onu. Oggi a Gaza le donne sono prese di mira proprio per il loro ruolo centrale nella società: sono tante le immagini che abbiamo visto, con soldati israeliani nell’atto di indossare biancheria intima e vestiti di donne ormai lontane, sfollate dalle loro case, magari ammazzate dai bombardamenti o dagli attacchi dell’esercito. Questi atti sono violenza di genere, normalizzata e accettata. Uccidere le donne vuol dire uccidere la vita, la fertilità, la riproduzione. Una donna, una madre, una sorella e una figlia a Gaza rappresentano un grande modello di dignità e resistenza.

Le donne palestinesi non devono solo combattere contro l’occupazione, ma devono anche lottare contro il patriarcato interno alla società e per la propria autodeterminazione, proprio come ogni altra donna del mondo. Per questo, le donne arabe e musulmane sono considerate delle “eterne vittime”, incapaci di decidere per se stesse, vittime di mariti, padri e sorelle. Lo sguardo occidentale considera la loro condizione attraverso questo parametro, con l’idea che queste donne abbiano bisogno di essere salvate dalle donne occidentali, per ottenere la libertà e modernizzarsi. Essere donna in Palestina, quindi, rappresenta una sfida a tutto il sistema di poteri e gerarchie: contro il patriarcato palestinese, contro l’occupazione israeliana e contro il femminismo bianco occidentale. Queste donne, oggi come ieri, continuano a rappresentare un’avanguardia politica e culturale.

Da ricercatrice, come sente le relazioni nei confronti di studiosi e accademici  palestinesi? 

Gli e le intellettuali palestinesi hanno da sempre dato un grande contributo nell’avanzamento del sapere sulla situazione palestinese: Said, Abu Sitta, Khalidi, Mashala e molti altri, studiosi che hanno nel corso del tempo aiutato a creare storia e memoria sulla Palestina, indagandone le questioni politiche e sociali, dalla Nakba in poi. Nonostante l’intenso lavoro di studio e ricerca, la maggior parte delle figure della ricerca palestinese non sono note al pubblico occidentale. Al contrario, si tende ad utilizzare fonti e voci israeliane o occidentali ritenute autorevoli e più affidabili. Non solo, da ottobre dell’anno scorso sono stati tantissimi gli accademici e ricercatori palestinesi e della regione ad essere colpiti da censura, accuse di antisemitismo e campagne di diffamazione. In Palestina, le università sono bersaglio della violenza coloniale di Israele. Professori, studenti e ricercatori spesso vengono arrestati per un tempo indefinito attraverso la detenzione amministrativa; il sapere accademico non viene solo limitato e messo dietro le sbarre, ma spesso scrittori, ricercatori diventano veri e propri bersagli da parte dell’occupazione. Ghassan Kanafani è un esempio: fu ammazzato da una bomba posta sotto la sua auto dal Mossad nel 1972. Come nella maggior parte dei sistemi coloniali, uno dei principali obiettivi della potenza occupante è il dare vita a una nuova storia, una nuova memoria. Oggi, a 76 anni dalla Nakba, uno degli obiettivi della lotta palestinese è proprio la possibilità di riappropriarsi della storia e della memoria, e preservarle per le prossime generazioni. L’unico modo per immaginare un futuro è preservare il passato, affinché non sia cancellato o rimodellato a seconda dell’esigenza della potenza occupante. Questo è il ruolo, oggi, di chi fa ricerca, dell’università e degli accademici palestinesi: la resistenza culturale.

Diverse università hanno sospeso accordi di ricerca con proprie omologhe in Israele. Pensa che sia giusto?

Il boicottaggio è sempre stato utilizzato come strumento di protesta per isolare politicamente ed economicamente paesi e governi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani; in Sudafrica fu uno degli strumenti più funzionali per creare una massa critica contro l’apartheid. Oggi, allo stesso modo, boicottare le istituzioni complici del genocidio persegue esattamente lo stesso obiettivo: isolare e rendere Israele responsabile dei propri atti. Diverse università israeliane che intrattengono relazioni con gli atenei in Italia lo fanno in chiara violazione del diritto internazionale. L’Università di Milano ha per anni avuto un programma di scambio con l’Università di Ariel, situata nell’omonima colonia che sorge nei territori occupati da Israele nel 1967: una relazione che non dovrebbe nemmeno esistere, in quanto è chiaro che non si possono concludere accordi con istituzioni che si trovano in territori dai quali la popolazione nativa è stata cacciata con la forza per mettere al suo posto una nuova comunità. Spesso le università israeliane producono ricerca nell’ambito militare e nello sviluppo di tecnologie che vengono impiegate nel settore bellico. Inoltre, diverse università fanno ricerca per il cosiddetto dual use: strumenti che possono essere utilizzati sia per la tecnologia civile sia per quella militare. Per ciò che riguarda le università che si trovano dentro i confini di Israele, è importante sottolineare che le istituzioni accademiche non sono slegate dalle posizioni del governo, e spesso sono complici del sistema di occupazione e apartheid a cui sono sottoposti i palestinesi. In queste università, spesso le posizioni di alto rilievo sono occupate da personalità che hanno ricoperto ruoli importanti nell’esercito o nei servizi di intelligence. Il boicottaggio resta uno dei pochi strumenti che possiamo utilizzare per decidere da che parte della storia stare. Nel dibattito in corso, alcuni sostengono che non sia corretto boicottare le università israeliane in quanto “fucine del dissenso”. Purtroppo, invece, le università dimostrano fedeltà al progetto del governo israeliano, censurando, sospendendo e arrestando professori con posizioni contrarie, come nel caso della professoressa Shalhoub-Kevorkian alla Hebrew University di Gerusalemme. Finché il sistema coloniale di apartheid e occupazione non sarà messo al bando e smantellato, le istituzioni complici in questo sistema devono essere isolate e devono essere chiamate a rispondere per la complicità nel genocidio e nell’oppressione del popolo palestinese. 

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