Fathi l’aveva intitolato “Diritto al divertimento”. Il video, che voleva essere la sua testimonianza esclusiva e personale da neo-giornalista, su come si possa vivere e lavorare nella Striscia di Gaza, faceva vedere in presa diretta dei bambini che smettevano di giocare alla playstation durante uno dei frequentissimi black out a Gaza City e che, rassegnati, si riversavano in strada a tarda sera inseguendo una palla. I bambini, si sa, si adattano a qualsiasi ambiente e condizione. Peccato che il cambio di gioco, a Gaza, non potesse mai essere una scelta ma fosse sempre stato una necessità obbligata. Di quelle necessità che fanno virtù, pazienza e sopportazione, almeno per chi non ha voce in capitolo nella politica, e nemmeno in quella, locale e pericolosa, della Striscia. Di questa marginalità e paziente rassegnazione, ne sapevano già assai più di qualcosa, nel 2012, i miei 25 allievi di giornalismo all’Al-Azhar University di Gaza. Con (ma sarebbe meglio dire grazie a) Neveen, Mustafa, Fathi, Laura, Nura, Susan –per citarne solo sei– avevamo messo su un progetto di racconto quotidiano, l’unica modalità- in una terra sotto occupazione esterna e con un regime interno – di poter fare del giornalismo onesto che non creasse tensioni divisive anche tra di loro. Il progetto “A window on Gaza” (Una finestra su Gaza), nato da una collaborazione tra Ats pro Terra Sancta e Università Cattolica, si muoveva tra il professionalismo digitale e il citizen journalism: allora, mettere in mano delle telecamere a dei giornalisti, fondare un blog e provare a raccontare cosa si vedesse fisicamente dalle finestre su Gaza, non era scontatissimo. I social media avevano già cambiato il mondo arabo e riversato milioni di persone nelle piazze ma non avevano ancora cambiato il modo con cui il mondo guardava a Gaza. Eppure quelle finestre erano già dei valichi di osservazione tristemente privilegiati su un luogo per definizione chiuso e con poche aperture verso l’esterno. Il blog era diventato, dunque, un’atipica finestra su un piccolo mondo che si moltiplicava per tutti gli edifici abitati e anche per quelli disabitati perché incompleti, distrutti, sventrati o abbandonati. Da queste bocche di cemento, già allora sdentate, però, ci si affacciava comunque, si guardava il mare, si sognava un futuro migliore o anche solo una gita in Egitto o nei Territori Occupati, al di là di Erez e Sderot. Si imprecava –raramente – ma soprattutto si accettava che il tempo passasse, così come era stato dato da Dio che tutto decide e governa. Nel dicembre 2012, Israele non aveva ancora lanciato la campagna di guerra “Piombo fuso” e Hamas non godeva di appoggio totale e incondizionato nella Striscia. I miei studenti litigavano ma soprattutto ci contestavano, con gentilezza: non era possibile parlare di equidistanza, di giornalismo oggettivo. Il giornalismo, almeno per 24 di loro, era soprattutto testimonianza e la testimonianza non poteva prescindere dalla condizione di prigionia determinata dall’occupazione israeliana della Striscia. Se la realtà è assurda ed è sbilanciata – dicevano – è una realtà che ci impedisce di vedere altro e di vedere oltre. Così il giornalismo diventava l’onesta necessità di testimoniare una condizione eccezionale. Per uno solo tra loro, Mohammad, il giornalismo non poteva prescindere dall’attivismo politico: a distanza di anni, lui, eccellente fotografo, sarebbe diventato una delle punte di diamante della comunicazione esterna di Hamas e delle parate, marce, operazioni delle brigate al-Qassam. Mohammad sentiva di essere un soldato senza fucile ma con la macchina fotografica e la sua scelta generava molte critiche tra gli studenti e tra gli insegnanti. Ma era una possibilità, forse la più logica in una terra così disgraziata. Oggi, a distanza di dieci anni, e dopo sei mesi di guerra senza quartiere, le sporadiche notizie sui social media mi restituiscono alcune immagini: Mohammad è uno dei vivi di quel gruppo. La maggior parte è dispersa. Uno è morto, e non so quasi nulla di molti altri. Alla pena per delle persone che hai formato e indirizzato, si aggiunge il senso d’impotenza determinato dalla situazione e il carico di destino, la consapevolezza di averli formati per affrontare, un giorno, il racconto della morte della propria gente, della famiglia, forse anche di se stessi. Con 97 giornalisti morti su 34mila civili gazawi, l’attacco ai media nella guerra Israele-Gaza è il peggiore mai visto in decenni, con tutto il corredo di violazioni gravissime come ferimenti deliberati, rapimenti e arresti, minacce fisiche e cyber, censura, uccisione di familiari. Ma è ancora più grave se si considerano altri precedenti: il diniego da parte delle autorità israeliane dell’accesso dei giornalisti internazionali a Gaza; la costante campagna di disumanizzazione e demansionamento dei giornalisti gazawi da parte delle autorità militari e politiche israeliane che non ne ammettono la definizione di “giornalisti” ma li assimilano agli uffici di comunicazione di Hamas, anche quando prestano la loro opera per media internazionali qatarioti, turchi, cinesi, arabi, palestinesi, europei, americani. In questa drammatica escalation di violenza contro i colleghi locali, e nel silenzio che per mesi ha avvolto la loro sorte da parte delle organizzazioni internazionali in difesa dei giornalisti, la generazione Z dei giornalisti gazawi ha imposto, con tutta la gamma dei sentimenti possibili, la propria finestra su Gaza, fatta di corpi intrappolati nelle macerie, bambini affamati abbarbicati dentro pentoloni senza più nulla, aiuti umanitari paracadutati in mare o tra le macerie, fosse comuni rivoltanti: Moataz Azaiza, Bissam Ownda, Plestia Alaqad sono riusciti nell’impresa dell’onestà, descrivendo la società civile locale, disperata e resiliente. E il prezzo che stanno già pagando, in termini di salute mentale e di perdita della propria quotidianità, nonostante i premi internazionali, non impedisce loro di dare una lezione di alto giornalismo al resto del mondo.