ESPLORATORE.. PROFESSIONE PODCASTER: UN VIAGGIO NELL’ASCOLTO

di SARA PERNIOLA

Essere un audio designer significa lavorare su comprensione e percezione, su contenuto e forma, insieme, senza che sia possibile separarli. Una frase inaspettata che ti sorprende in un ritmo da cui non riesci a sfuggire. Un viaggio nell’ascolto in cui ogni cosa è al suo posto, come le particelle nell’Universo”. Questo è quello che si legge non appena si apre il sito web di Jonathan Zenti, audio e podcast designer, cresciuto nel NordEst e adottato da Milano. Naviga da quasi vent’anni tra sperimentazione e originalità, creando lavori audio individuali e di produzione internazionale: i suoi podcast sono delle narrazioni intime e vicine allo spettatore, arricchite da suoni da esplorare.

Descrivici in generale la tua professione e quale è stato il tuo percorso: come sei diventato un creatore di podcast?

Io, in realtà, il podcast come tecnologia per diffondere i miei contenuti lo uso già da una decina d’anni, e per un motivo molto semplice: dopo aver fatto un apprendistato presso Radio3 ho capito che volevo fare dei miei radio-documentari. La Rai, però, in quel momento, nel 2007, non ne produceva più e quindi avevo solamente due modi per far sentire al pubblico le cose che volevo comunicare: il primo era caricare i miei lavori online e utilizzare internet come strumento di diffusione, e l’altro era farli dal vivo. Perciò per un po’ di anni ho fatto entrambe le cose, fino a quando non ho creato nel 2011 il mio primo podcast che si chiama “Ritratti (o si muore)” e che poteva essere pubblicato solo così. Dopo mi sono specializzato come audiodocumentarista negli Stati Uniti e nel 2019, dopo essermi trasferito a Milano e quando oramai il podcast era sempre più di uso comune, ho sentito l’esigenza di riiniziare a farli in italiano. E quindi mi è venuto in mente di fare questo podcast che si chiama “Problemi” e che inizialmente avrei voluto fosse una sorta di “fiction-mentario”, ovvero le confessioni di una persona che non esiste, una versione alternativa di me che cerca di arricchirsi con i podcast ma non ci riesce. Poi è arrivata la pandemia e il progetto è cambiato in corsa, poiché sentivo anche la necessità di raccontare quello che accadeva intorno.

Tu hai modo di produrre lavori sia individuali che collaborando con altri – e in tal caso penso al progetto “Limoni” sul G8 con “Internazionale” – spaziando così fra diversi temi. C’è però un fil rouge che lega tutti i tuoi podcast? E ce n’è uno tra questi a cui sei più affezionato?

Sia quando collaboro con altri sia quando produco contenuti esclusivamente miei, il materiale su cui lavoro sono sempre le relazioni umane. È come se ci fosse la grande categoria degli individui e io ci andassi a mettere il mio microscopio in mezzo a ciò che li connette. Quello che cambia è la cornice, ma sostanzialmente parlo sempre di quello. E sono chiaramente tutti dettati dalla volontà artistica di farli. Per quanto riguarda, invece, la tua seconda domanda, ti dico che sono particolarmente legato a due miei lavori: uno prodotto in fase di sperimentazione e che riguarda un particolare evento personale, ovvero l’imminente morte di mio nonno – che era un po’ il grande patriarca – e di come avrebbe reagito la mia famiglia a questa notizia; l’altro, invece, è un lavoro mastodontico e si chiama “Ognuno di noi” – fatto tra il 2008 e il 2010 – e che narra di un omicidio avvenuto a Verona nel 2008. Quest’ultimo podcast ha sancito un po’ una svolta nel mio percorso, poiché mi ha costretto a fare delle scelte ragionate e sofferte, ho proprio sentito di come ci fosse un “prima” e un “dopo”. Da lì in poi tutto quello che ho fatto è stata una scelta e non solo puro istinto. Senza questo lavoro di certo non ci sarebbe stato tutto il resto.

Ritornando al progetto “Limoni”, com’è nata questa collaborazione e perché pensi sia importante parlare di un evento del genere in questo momento storico?

La filiera di come è andata con “Limoni” è che quel progetto è stata un’idea del direttore di “Internazionale”, Giovanni De Mauro. Io collaboro con loro da molti anni e da tempo stavamo cercando il momento e il tema giusto per poter creare e produrre un podcast. Abbiamo riconosciuto che l’evento del G8 di Genova potesse essere una buona occasione per poterlo fare. Questo perché ci siamo resi conto che “Internazionale” era stato il posto in cui di più si era parlato di ciò che effettivamente era accaduto, poiché traduce gli articoli stranieri e solamente la stampa estera riportava quello che stava accadendo nelle strade e nelle piazze. Quindi per la testata questo è stato un anniversario importante. De Mauro mi ha chiesto di divenire l’executive producer del progetto, di affiancare tutti coloro che stavano contribuendo a crearlo con il materiale autoriale e creativo, e infine di curare il montaggio. Per quanto riguarda la mia posizione personale, invece, all’inizio avevo un’ingenua ambizione che dopo vent’anni si potesse fare un punto storico sui fatti: chiaramente con “Limoni” si è potuto farlo solo in parte perché le ferite sono ancora aperte e vive, le ingiustizie ancora presenti e le opinioni ancora più radicalizzate. È stato sicuramente molto potente riportare alla memoria quell’evento, ma credo ci sia ancora troppo da dire e da risolvere prima di poter dire che questa è davvero una pagina di storia e non di cronaca.

Toccando, invece, il tema della pandemia: come pensi siano cambiate l’esperienza d’ascolto e il paradigma della divulgazione informativa e narrativa?

Questo è un argomento di cui si sta parlando molto negli ultimi mesi nell’ambiente internazionale di chi fa audio, soprattutto da un punto di vista creativo. Ho avuto infatti modo di riflettere su questa questione con alcuni miei colleghi durante un meeting, in cui abbiamo ricordato di essere stati testimoni della cosiddetta “radio revolution”: come si definisce i periodo dal 2007 in poi, un periodo molto creativo per la radio. Adesso, invece, è un’altra fase, ovvero quella dell’industria. Ascoltiamo molto non soltanto perché c’è la pandemia che ha sicuramente facilitato questo tipo di fruizione, ma perché ci sono degli investimenti molto ingenti nell’audio, nonché degli strumenti tecnologici avanzati – pensiamo solo a Spotify – che hanno permesso una capillare diffusione di contenuti. Questa logica di mercato un po’ affievolisce la vena creativa e tutto diventa un po’ simile e poco originale, poiché si creano delle cose per vendere e non per soddisfare necessari impulsi artistici. Per me, quindi, da un lato diventa importante lo sforzo finalizzato allo stabilizzarsi di questo tipo di industria che possa ergersi al pari di quella cinematografica e discografica; dall’altro ci si deve impegnare affinché i contenuti siano prodotti dalla creatività, anche quelli maggiormente mainstream e commerciali.

Come, secondo te, uno strumento come il podcast potrebbe aiutare il lavoro di tutte quelle realtà impegnate nel sociale?

Innanzitutto ti posso dire il motivo per cui, secondo me, non dovrebbero usarlo, che è avere successo e farsi conoscere in maniera esponenziale. Mi capita molto spesso di entrare in contatto con organizzazioni private, ong, enti, che si lanciano nella creazione e produzione di podcast e la prima domanda che fanno è questa: “quante persone hanno ascoltato?”. In un mondo in cui vengono prodotti due milioni di podcast – di cui un milione attivo e quindi che fa più di un episodio al mese –, quella è la domanda sbagliata. La quantità di ascoltatori non è più un valore, ma è la qualità e la relazione che si crea ad esserlo. Partendo da questo presupposto, e cioè che i numeri non sono importanti, ma lo è il pubblico, quanto lo si aggancia e come si coltiva quel rapporto, il podcast può essere utilizzato per molte cose e per far passare molti messaggi: nello specifico, con le realtà impegnate nel sociale, può servire per far conoscere internamente l’organizzazione o un progetto specifico, utilizzando le capacità temporali e spaziali del podcast e rivolgendosi a un target di persone interessate; come può essere utilissimo per portare avanti e promuovere delle campagne senza utilizzare però la promozione, ma solamente la costruzione delle relazione, il che è fondamentalmente alla base della cooperazione internazionale. Ecco quello che si potrebbe fare: una campagna relazionale.

 

I periodi di grande trasformazione hanno molti meriti: uno tra questi è che portano a scavare per far emergere nuovi modi di raccontare e di esprimere il pensiero individuale e collettivo. Tra questi oggi signoreggia elegantemente il podcast, trasmissione audio in forma episodica che l’utente può ascoltare on demand o scaricandolo su un dispositivo personale per fruirne in un secondo momento e senza connessione alla rete. Nato nel lontano 2005 come idea imprenditoriale di Steve Jobs, dal 2019 solo in Italia vanta un incremento del +16 % di utenti e, dunque, una registrazione pari a 1,8 milioni di ascoltatori in più, passando dai 12 milioni di ascoltatori ai 13,9 milioni del 2020 (fonte Nielsen). Il profilo degli ascoltatori è marcatamente giovane (il 44% è under 35) ), ma nel 2021 sono cresciuti anche i target adulti laureati (27%) e professionisti (13%). È considerato il vero e proprio “canale del futuro”.

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