ARRABBIATO. AFGHANISTAN, SE I MEDIA HANNO UNA RESPONSABILITÀ NEL DISASTRO

di LUCIANA BORSATTI

Anche nel cinema domina la narrativa occidentale

Abbiamo perso tutta la nostra fiducia e la nostra speranza nella comunità internazionale e anche nei media internazionali. Questi ultimi del resto sono stati i principali attori nel dar forma alla narrativa della guerra in Afghanistan, concentrandosi su alcuni aspetti del conflitto e dando conto dei fatti in modo selettivo, e così sono stati profondamente coinvolti nel crearsi dell’attuale situazione”.

Ilyas Yourish è un giovane regista afghano che oggi vive a Bruxelles, ma che fino alla presa di Kabul da parte dei talebani si recava spesso in patria: le ultime riprese per il film “Kamay”, diretto insieme a Shahrokh Bikaran, le aveva compiute nell’Afghanistan centrale a metà luglio, poche settimane prima che i talebani conquistassero la capitale dopo il ritiro degli Usa e della Nato dal Paese. Ora il film – la storia di una ragazza di una zona rurale che cerca la verità sul misterioso suicidio della sorella nell’università di Kabul – è in post-produzione, ma il pensiero di Yourish va soprattutto ai colleghi rimasti in patria. Per questi si era mobilitato insieme a un gruppo di amici cercando per loro, tramite diverse ambasciate europee, una via di fuga – sforzi solo in parte riusciti, visto che 25 suoi connazionali sono stati accolti dai Paesi Bassi (16), dall’Italia (7) e dalla Finlandia (2), mentre 13 sono in attesa di evacuazione in Germania. Ma altri 200, tra gente del cinema e loro familiari, restano bloccati e temono per la loro vita, talvolta costretti a cambiare domicilio anche due volte la settimana. Con Yourish, ospite insieme ad Aboozar Amini (autore di “Kabul City in the Wind”) del festival Middle East Now nell’ottobre scorso a Firenze, parliamo ora proprio della narrativa occidentale sull’Afghanistan e di come questa abbia contribuito a determinare il destino del Paese. “Per esempio certi video dei talebani che picchiavano le donne e giustiziavano le persone nello stadio di Kabul – risponde – sono stati usati dai media mainstream per giustificare in qualche modo l’invasione americana del 2001”. Non che non si dovesse agire per fermare i crimini dei talebani, prosegue Yourish, “ma quando per le forze Nato si è trattato di concludere la missione in Afghanistan, gli stessi media internazionali, coordinandosi con i talebani, si sono recati nei loro territori e riportato come governavano e se rispettavano o meno i diritti delle donne”. La troupe di una nota emittente internazionale per esempio, osserva, si è recata in una scuola elementare femminile in un territorio talebano, ha mostrato le immagini delle ragazze che studiavano con un’insegnante donna e parlato con un funzionario scolastico talebano. In quel periodo però le forze di sicurezza governative stavano ancora combattendo contro quei miliziani, e altre componenti della società afghana esercitavano i propri diritti civili all’interno della propria comunità. Ma il punto di vista e le perdite delle forze di sicurezza governative non venivano riportate. “Anche quando molte aree del Paese erano ancora controllate della forze di sicurezza afghane, la maggior parte dei media mainstream citava spesso i talebani e le loro vittorie, mentre delle forze di sicurezza afghane si riportavano solo le perdite, ignorando il loro sacrificio: cosa che ha contribuito a deprimerne il morale e accelerato la sconfitta. La ragione principale del collasso delle forze afghane erano la corruzione dei loro vertici e le scelte politiche delle autorità, ma non posso dimenticare le anime e i volti dei coraggiosi soldati afghani che ho incontrato”.

Inoltre, aggiunge, “i nostri sforzi di combattere il terrorismo globale sono stati dipinti come una guerra civile e i talebani etichettati come forze locali che combattevano l’invasione Usa”. Infine, “è stato scritto molto su come i talebani fossero cambiati e rispettassero le persone e via dicendo, cronache che hanno amplificato l’immagine di una loro seconda versione”. Questo fa capire, prosegue il regista, che “in questo mondo non esistono media liberi, perché le fonti di finanziamento, i legami politici e gli interessi commerciali delle imprese editoriali non glielo consentono. Ma al tempo stesso ci sono anche stati singoli giornalisti che lavoravano con dignità e onestà”. “Ma ora i soli che hanno accesso all’Afghanistan sono quelli dei principali media internazionali”, sottolinea ancora, pur riconoscendo che alcuni cronisti indipendenti continuano a partire, talvolta a proprie spese, e anche dall’Italia. “Sul mainstream internazionale – continua – si vede che i reporter possono viaggiare in sicurezza in Afghanistan, che sono stati nell’Helmand e a Kandahar. I loro account Twitter sono pieni di selfie e di foto di giornaliste con i talebani, quegli stessi che hanno soppresso i media e i giornalisti afghani. Alcuni reporter locali hanno dovuto lasciare l’Afghanistan per le minacce e per le violenze subite da colleghi arrestati, mentre i giovani giornalisti rimasti devono stare attenti a ciò che riportano per non rischiare troppo”. Eppure vi sono fatti che richiederebbero un’adeguata copertura giornalistica: Yourish cita le famiglie di etnia hazara scacciate dalle loro case nell’Afghanistan centrale e ora anche nel nord, dopo la fine della resistenza del Panjshir; le uccisioni extragiudiziali, i cadaveri “che si vedono anche al mercato” a Jalalabad. Tutti fatti con scarsa eco sui media internazionali, i quali “hanno una loro agenda, che lascia l’Afghanistan in un blackout mediatico, che produrrà un disastro nel prossimo futuro. Ma per i media l’Afghanistan ora ha solo bisogno di aiuti umanitari”. Cosa vera, precisa, ma certo non è l’unica realtà nel Paese.

Le storie afgane che nessuno racconta, e i cineasti lasciati soli

“Un capitolo a parte è quello del cinema, dove domina la stessa narrativa occidentale – sottolinea ancora il regista – anche quando gli autori sono afghani. Un esempio è quello di un pur interessante e pregevole film britannico del 2019, “Learning to Skateboard in a Warzone (If You’re a Girl)”, diretto da Carol Dysinger e vincitore dell’Oscar del 2020 per la categoria dei corti documentari. Al centro del film le ragazzine che imparavano a leggere e scrivere, ma anche a cimentarsi con lo skateboard in una scuola di Kabul organizzata da Skateistan, una Ong internazionale con sede a Berlino. “È una buona storia – sottolinea Yourish – ma basata su qualcosa di straordinario: lo skateboarding non esiste in Afghanistan, serve infatti una Ong per praticarlo. Non dico che la storia non sia vera, ma ce ne sono mille di cui non si parla affatto, perché prive di legami con organizzazioni internazionali”, cioè di una componente straniera in qualche modo salvifica. “In questo caso gli afghani sono visti non come esseri umani ma come soggetti di un caso di cronaca o di una storia da costruire”. L’alternativa è rappresentata da autori e registi afghani che possano produrre in modo indipendente, e che siano in grado di imporre la propria narrativa sul proprio Paese. Ma “non ci sono fondi nazionali per il cinema in Afghanistan – dice ancora Yourish, parlando d’altronde di un’epoca ormai chiusasi il 15 agosto – né fondi regionali, qualche risorsa si trova solo a livello asiatico. Cosa che non lascia agli autori afghani altra possibilità se non competere per i fondi internazionali, di enti che sono molto esigenti e prestigiosi e ricevono centinaia di domande. Per l’autore che riesce a entrare in un gruppo di produzione internazionale non resta però alcun potere negoziale nel controllo creativo sul proprio progetto. Anche se resta sempre il regista del film, il produttore internazionale dice quali sono i temi e le questioni che vorrebbe coprire”. “Tuttavia – sottolinea – ci sono anche pratiche di co-produzione ‘eque’ e, che sostengono i diritti dell’autore, messe in atto da alcune organizzazioni”. È il caso per esempio dell’IDFA (International Documentary Filmfestival di Amsterdam) o del Sundance Festival o di Close-Up: un programma internazionale, quest’ultimo, di training e coproduzione per documentaristi del Medio Oriente e del Nord-Africa fondato da Sigal Yehuda, ebrea iraniana nata in Israele. L’emergenza di oggi è però un’altra: quella di tutti i cineasti, autori e operatori del settore cinematografico che non sono riusciti a fuggire dall’Afghanistan con i ponti aerei di agosto. La lista di 200 persone che Yourish ha formato con i suoi amici e colleghi ne raccoglie solo una parte, ma include molti fra quanti non erano ancora riusciti a stabilire una rete di contatti internazionali. “Sono loro che stanno peggio – conferma – quelli che si sono da poco laureati in Afghanistan o all’estero e che hanno appena cominciato a lavorare”. Di fatto, la sola generazione di cineasti che in questi 20 anni di democrazia ha potuto crescere. “Dopo la caduta di Kabul abbiamo cominciato a scrivere e-mail alle nostre conoscenze nel mondo, dal Sundance ad Amsterdam e a Berlino, chiedendo loro di aiutarci. Alla fine avevamo una lettera con oltre 3 mila firme di cineasti, registi, festival del cinema, fondazioni che abbiamo inviato a organi governativi di vari Paesi europei – Italia, Germania, Paesi Bassi, Spagna, e alcuni organismi negli Usa. Ma finora solo 25 sono arrivati in Europa. Per gli altri l’impressione è che manchi la volontà politica di fare di più”.

 

Centro Herat Ph: Federica Cova

EMERGENZA AFGHANISTAN
Dal settembre 2021 COSPE ha lanciato la campagna “Emergenza Afghanistan” in risposta all’ennesima tragedia che ha colpito questo Paese. Dal ritorno al potere dei talebani, che hanno conquistato Kabul lo scorso 15 agosto, l’Afghanistan è infatti ripiombato nel caos. In migliaia hanno tentato di fuggire. Chi rischiava e rischia di più la vita sono gli attivisti e le attiviste, le persone che hanno lavorato con organizzazioni internazionali e le donne, per il solo fatto di essere donne. Dopo vent’anni di lotta per il riconoscimento dei loro diritti, l’arrivo dei talebani mette una pietra tombale su ogni speranza. COSPE, che ha lavorato in Afghanistan dal 2008 al 2018, si è mosso fin da quei giorni di agosto per far uscire dal Paese le persone più esposte e in pericolo di vita. Molte sono state le richieste di aiuto e fin da subito ci siamo adoperati per organizzare le operazioni di evacuazione insieme al Ministero degli Affari Esteri e della Difesa e in collaborazione con altre ONG. Ad oggi siamo riusciti, a portare in salvo 42 persone. Tra loro anche alcune delle calciatrici della squadra di Herat. Ma molte altre persone non ce l’hanno fatta. Oggi la campagna ha due obiettivi: continuare l’attività di evacuazione e tenere aperti corridoi umanitari sicuri e gestire le fasi dell’accoglienza qui in Italia, attivando l’ospitalità, i servizi sanitari e di supporto psicologico, e i successivi programmi di inserimento.

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