BOU SANAA: UNO SPETTACOLO SUL PARTIRE E IL RESTARE

di ANNA MELI

Il mio augurio è che dopo lo spettacolo la gente riesca a parlare

La passione per il teatro scoperta al liceo e la determinazione di un gruppo di amici e compagni di scuola affascinati e poi rapiti dalla letteratura e dal teatro. Così nasce nel 1995 a Ziguinchor, capoluogo della Casamance, regione meridionale del Senegal, la compagnia teatrale Bou Sanaa. Bou sanaa è il nome dell’albero ad alto fusto tipico della Casamance detto “fromager”. Si dice che il termine derivi dal francese “forme agée“, in quanto la corteccia dell’albero assomiglia alla pelle dell’elefante, che è considerato l’animale più vecchio e longevo. Per Djibril Goudiaby, direttore della compagnia teatrale, il nome dato alla compagnia simboleggia l’incontro con l’altro e il dialogo. È attorno ai grandi alberi fromager che gli anziani dei villaggi si ritrovano per parlare dei loro problemi, per discutere e scambiare opinioni e per parlare delle loro situazioni. Ma è anche dal tronco di questi alberi che si costruiscono le piroghe che servivano un tempo per spostarsi in questa splendida regione caratterizzata da un reticolo di fiumi e canali navigabili, e oggi per migrare verso le Canarie e l’Europa. Quarantasette anni, nato a Bala, un piccolo villaggio a 40 chilometri dal capoluogo, sulla rotta gambiana, unico figlio di una famiglia allargata, Djibril è stato a lungo osteggiato dalla famiglia per questa sua scelta. “Mi chiedevano al villaggio ‘Cos’è un artista? Lo fai per bere? Per fumare le canne? Per mettere i rasta?” Perché qui non sei soltanto figlio di tuo padre e di tua madre, sei figlio di tutto il quartiere. È quasi così dappertutto nel villaggio mi hanno preso per un pazzo e per uno che ha perso la testa. Ma nel tempo mi hanno accettato”. All’inizio li chiamavano per le feste di fine anno scolastico e per animare il liceo. Già allora trattavano temi forti come il matrimonio forzato, le gravidanze precoci, l’Hiv e altre. “Utilizzavamo l’humor – ci dice – per comunicare perché abitiamo in una zona dove quando sei troppo serio non vieni considerato”. Grazie all’incontro con il teatro di Ziguinchor, Djibril e compagni si sono riusciti a formare e perfezionare e nel 2002 hanno messo in scena il loro primo spettacolo “Dio non è obbligato” in collaborazione con uno sceneggiatore francese. La rappresentazione affronta il tema dei bambini soldato, in una regione che ha visto un conflitto per l’indipendenza della regione che ha avuto i suoi anni più sanguinosi dal 1992 al 2001 con più di 1000 morti. Lo spettacolo ha avuto numerose repliche in tutto il Senegal e naturalmente a Ziguinchor ma ha anche girato molto all’estero, in Francia e in Italia in particolare.

E quando hai iniziato ad affrontare il tema della migrazione?

Tra il 2004 e il 2005 abbiamo montato uno spettacolo chiamato “Il destino del clandestino”. Sono io che l’ho scritto e che l’ho interpretato. L’ho presentato molte volte in Senegal e con questo abbiamo potuto incontrare molti migranti e persone qui in Senegal con il desiderio di partire con in testa il sogno Europa. Questo ci ha permesso di ascoltarli, così come la tournée in Europa ci ha permesso di incontrare molte persone già emigrate. Siamo diventati comici professionisti che girano il mondo per incontrare i suoi cittadini!”

E che idea ti sei fatto?

Per quanto riguarda la mia regione, mi sono reso conto che prima molti pescatori che guadagnavano bene da vivere attraverso la pesca perché a qualche metro dalle loro case avevano i pesci, adesso non riescono più a pescare come prima perché le grandi navi pescano vicino alla costa e loro devono fare tanti chilometri per trovare del buon pesce. È la causa principale della crisi nella zona. Così decidono di partire. Stessa cosa per i commercianti ambulanti che guadagnavano da vivere con il loro lavoro ma, adesso, con la globalizzazione e con la roba che manda la Cina a basso costo, sono costretti a spostarsi. Stesso problema con l’agricoltura, il mercato africano è invaso da prodotti europei. Il piccolo agricoltore africano non può fare concorrenza con un coltivatore americano o europeo. Questo ammazza il commercio, la pesca, l’agricoltura. Ed inoltre c’è un problema di immaginario. Le pubblicità non ci mostrano l’Europa povera ma solo l’Europa come un Eldorado.


Qual è stata la reazione del pubblico allo spettacolo?

Il pubblico si è reso conto che il nostro spettacolo era la realtà. Le persone sanno che nel deserto c’è il rischio di morire, ma sanno che rimanere vuol dire anche morire di fame. Sanno benissimo il pericolo e il pericolo di attraversare il Mediterraneo con i barconi. Una volta ad una rappresentazione in Francia quando lo spettacolo è finito, un ragazzo migrante ha fatto il giro del palco per incontrarmi nel retro. Mi ha abbracciato piangendo e mi ha detto che quello aveva visto nello spettacolo era esattamente ciò che aveva vissuto. In quel momento era in Francia senza documenti e si doveva nascondere. Non era vita quella che stava facendo. Se avesse potuto tornare indietro, non avrebbe fatto quel viaggio.
So che nel prossimo lavoro teatrale sono coinvolti migranti di ritorno.

Com’è andata questa esperienza?

È stato molto difficile all’inizio perché non c’era l’abitudine di parlare dei propri problemi. È una questione culturale. Attraverso degli esercizi del corpo, della voce e delle emozioni e di movimento, li ho portati a fare una differenza tra la realtà e la finzione. Al terzo incontro hanno iniziato a parlare, ognuno ha raccontato la sua storia dall’inizio alla fine. Era qualcosa di interessante e pieno di passione. Il mio ruolo è stato quello di trasformare le singole storie in uno spettacolo. Abbiamo iniziato il lavoro con loro e ora sono passati circa 4-5 mesi da quando abbiamo iniziato. Poi ne faremo uno spettacolo. Il mio augurio è che dopo lo spettacolo la gente riesca a parlare. So che non è evidente ma è attraverso il dibattito dopo lo spettacolo che si può costruire un’Africa consapevole delle sue potenzialità.

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