La vostra casa è la mia prigione

La pandemia ha peggiorato la sorte di migliaia di donne migranti che lavorano nelle case della borghesia libanese. Intervista a Lina, attivista per i diritti delle lavoratrici domestiche

Lina risponde alla video chiamata in una pausa di lavoro. Vedo che sta parlando da quella che sembra una cabina armadio molto grande, piena di maglioni, vestiti e scarpe. Non potrebbe esserci scenografia più simbolica per una lavoratrice domestica. Lina, 45 anni originaria delle Filippine, è infatti una dei circa 250mila lavoratori domestici migranti, residenti in Libano. Almeno quelli censiti, perché molti di loro finiscono molto presto nell’irregolarità e nella clandestinità, cercando di scampare ai centri di detenzione e ai rimpatri forzati. “Anche io -ci racconta Lina- sono stata clandestina per circa 3 anni. I miei ultimi datori di lavoro mi avevano confiscato il passaporto e per riscattarlo mi avevano chiesto 5000 dollari.” In Libano, come in molti paesi del Medio Oriente e del Golfo Persico, c’è una vera e propria compravendita di lavoratori domestici provenienti in gran parte da Africa e Asia e sono in maggioranza donne (l’80%). Vengono impiegate nei lavori più duri e a condizioni di semi-schiavitù nelle case della medio-alta borghesia libanese: senza orari, senza diritti alle cure, senza giorni liberi, senza telefoni o connessione internet, con cibo, acqua razionati e con dei salari bassissimi (circa 150 dollari al mese). A questo si aggiungono discriminazioni su basi razziali, violenze, deprivazioni e abusi di ogni tipo. In Libano, come in tutto il Medio Oriente questo lavoro, o meglio questa tratta di esseri umani, è “regolato” dal Kafala System. Kafeel letteralmente significa “sponsor/garante”, nella realtà significa padrone assoluto. Esistono molte agenzie, alcune ufficiali (469 secondo il rapporto di Amnesty “Their house is my prison”, 2019 ndr), molte informali, che reclutano i lavoratori nei paesi di origine, organizzano il viaggio, i documenti, il visto e trovano la famiglia presso cui andare a servizio. “Dall’aeroporto -racconta Lina- ti accompagnano sul luogo di lavoro. Ma da quel momento in poi tu dipendi in tutto e per tutto da loro”. Molto spesso le lavoratrici domestiche vivono nelle case dei datori di lavoro e quindi quasi tutto il salario va nei paesi di origine, dove riescono a mantenere la famiglia o a comprare una casa. Ma il prezzo che pagano per questo è altissimo: “Vivere nella stessa casa vuol dire essere sempre disponibile, non hai giorni di riposo, non puoi tenere con te i figli, non puoi avere contatti esterni. Una vera violenza psicologica, oltre a quella fisica”. Ma cambiare lavoro è impossibile, senza il consenso dello sponsor, e scappare dalla casa a cui sei stata assegnata vuol dire entrare nell’illegalità: “La prima volta che sono scappata mi hanno subito rimpatriato. Ma dopo 4 mesi sono tornata. Arrivata all’aeroporto sono scappata, ho cercato aiuto da alcuni connazionali e ho poi trovato una rete di persone che mi ha aiutata”. Lina, in Libano ormai da 26 anni da 9 è diventata attivista dell’Alleanza per i migranti lavoratori domestici (Migrant Domestic Workers Alliance) che aiuta chi ancora non ce l’ha fatta. L’Alleanza riunisce oggi circa 500 persone di diverse nazionalità (in Libano le nazionalità più numerose sono Etiopia, Filippine, Bangladesh, Sri Lanka, Ghana ndr) e aiuta tutti coloro che cercano di avere un contratto regolare, oppure gli irregolari che hanno bisogno di casa e di cure a cui non hanno altrimenti accesso. Durante la pandemia da Covid-19, la situazione è ulteriormente peggiorata: “Durante quest’emergenza i rischi per i lavoratori e le lavoratrici domestiche sono aumentati -continua Lina- perché più esposti alla violenza a causa della convivenza forzata e anche al contagio da Covid-19 perché sono loro a dover occuparsi di tutte le incombenze familiari. Se contagiati però, non hanno diritto al ricovero, al test, né all’isolamento”. Il welfare infatti non è garantito ma dipende dalla benevolenza (o meno) dei datori di lavoro. Molti poi sono stati licenziati, anche prima dell’emergenza, a causa della grave crisi economica che affligge il Libano fin dall’ottobre scorso e oggi sono bloccati in centri di accoglienza in attesa del rimpatrio: “La lira libanese -dice Lina- è stata molto svalutata e i nostri stipendi si sono ridotti di un terzo circa. In questo modo è impossibile sia sopravvivere fuori dalle case dei signori che mandare le rimesse a casa”. Un circolo vizioso fatto di povertà e di sofferenza che ha portato molti migranti anche al suicidio. Con una media (già altissima di uno la settimana secondo Human Rights Watch ndr) che è raddoppiata nei mesi di pandemia. Per fortuna, insieme all’associazione di migranti di Lina, esiste una rete della società civile libanese e internazionale che sta pian piano facendo emergere questo fenomeno: tra questi il Migrant community Center o l’Anti Racism-Movement che hanno attivato helpline e centri di ascolto e sostegno legale. Ma la battaglia, come sempre, è soprattutto culturale e in molti chiedono accanto a una legge che regolamenti il lavoro domestico, anche delle forti campagne di sensibilizzazione della società libanese.

 

di Pamela Cioni

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