In Italia non mancano braccia ma diritti

Intervista al sindacalista dei migranti Yvan Sagnet

Ci hanno detto che non vogliono gli stranieri, che sono già troppi e che ci rubano il lavoro. E poi, quando il mondo si è fermato, si sono accorti di averne bisogno. Ci hanno anche detto che nelle campagne mancano le braccia, che il raccolto sta andando a male. Eppure le diverse iniziative e gli scioperi dei braccianti che hanno avuto luogo negli ultimi mesi hanno dimostrato che, come dice lo slogan, “nelle campagne italiane, a mancare non sono le braccia, ma i diritti”. È servita una crisi sanitaria come quella causata dal Covid-19 per far sì che la società italiana si accorgesse degli invisibili, dei braccianti senza volto, senza nome, che affollano le campagne, spaccandosi la schiena sotto al sole per raccogliere pomodori, arance, asparagi, per €3 l’ora. Eppure c’è chi come Yvan Sagnet da anni porta avanti la lotta contro il caporalato, contro lo sfruttamento e le ingiustizie. Yvan è stato il leader del primo sciopero dei braccianti stranieri in Italia, durato circa un mese nell’estate del 2011 nelle campagne di Nardò, in provincia di Lecce. Grazie anche a quello sciopero, sostenuto dalle organizzazioni della società civile, dalla Flai e dalla Cgil, è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano il reato penale di caporalato (intermediazione illecita di manodopera). Oggi Yvan porta avanti le sue attività di sensibilizzazione al tema con la sua associazione “No Cap”, che della lotta al caporalato ha fatto la sua vocazione. Lo abbiamo intervistato per fare il punto sulla situazione. 

 

La maggior parte dei lavoratori agricoli in Italia vive in ghetti sovraffollati che molto spesso sorgono vicino ai campi coltivati. Eravate pronti per affrontare questa emergenza sanitaria? Ci sono stati molti casi? 

“Quando è cominciata l’emergenza coronavirus, abbiamo temuto il peggio. L’assenza di cure adeguate e di una strutturazione in agricoltura ha fatto sì che molti migranti fossero a rischio, ma fortunatamente non abbiamo subìto grandi casi di contagi nei ghetti. L’unico caso eclatante è stato quello della comunità bulgara a Mondragone. Questo non vuol dire che le cose resteranno così in futuro però. Serve prevenzione, a partire da strutture abitative adeguate per svolgere le attività quotidiane in modo da evitare assembramenti e il rischio di incendi. Durante il picco della raccolta si arriva anche a 5-6mila presenze nelle baraccopoli. Non sarebbe stato possibile rispettare le norme di distanziamento sociale. L’arrivo del virus sarebbe stato un dramma. Siamo stati risparmiati”. 

 

Come mai le proteste sono partite con così tanto vigore proprio in questo periodo?

“Per via della quarantena, gli italiani si sono fermati e i comunitari non sono venuti per la stagione, quindi hanno subìto più pressione i lavoratori extracomunitari. Erano tra i pochi che andavano a lavorare, motivo per cui gli veniva chiesto il doppio rispetto al solito. Abbiamo avuto una situazione estrema di sfruttamento. Nel foggiano e nell’agropontino sono emerse situazioni gravi, denunciate dalla società civile e sulle quali è fortunatamente intervenuta la magistratura”. 

 

Cosa ne pensi della sanatoria approvata dal governo per i lavoratori extracomunitari? 

“Penso sia un piccolo passo in avanti e che è importante, ma non è quello che volevamo. Lo Stato e la politica hanno fatto scelte che non condividiamo, ma è meglio di niente, visto che ci permette di regolarizzare almeno alcuni. Non sarà questa sanatoria però a porre fine allo sfruttamento, anche perché i lavoratori irregolari sono più vulnerabili, ma il caporalato può colpire anche chi è regolare, perché il fenomeno non è altro che un ricatto occupazionale che si basa su uno specifico schema di potere. La politica deve essere lungimirante specialmente quando si tratta di diritti, che vanno riconosciuti alle persone a prescindere dalla loro utilità”. 

 

Come migliorare l’attuale legge? 

“Abbiamo un elenco di proposte che potrebbero aiutarci ad uscire dall’empasse: prolungare i termini per presentare la domanda; annullare il contributo che sono tenuti a pagare i lavoratori, perché si va a creare un effetto perverso: alcuni datori di lavoro, ad esempio, stanno chiedendo soldi ai migranti per farli regolarizzare; dare maggiore responsabilità ai membri della società civile; creare più canali legali di ingresso in Italia; modificare le leggi sull’asilo italiane e europee; dare permesso di soggiorno con validità più lunga e non legato alla validità del contratto; e infine, abolire i decreti sicurezza e la Bossi-Fini. 

 

E all’interno di tutto questo, che ruolo pensi abbia la società civile? 

“È un ruolo ambiguo. La società civile ha alimentato il dibattito pubblico sulla sanatoria e sulla situazione dei braccianti, che è un bene. Però dall’altra parte ha commesso degli errori. C’è una sorta di strumentalizzazione del tema immigrazione che non giova ai migranti. Serve una strategia che porti velocemente a risultati e che non escluda i lavoratori italiani, ad esempio. Non concentriamo tutta la comunicazione del tema sui migranti. È vero che gli scioperi dell’ultimo periodo riguardavano principalmente gli immigrati, ma per portare risultati bisogna cambiare strategia. Se la comunità di braccianti è fatta di un milione e sessantamila persone e ne manifestano soltanto 400/500 c’è ancora spazio per migliorare e l’informazione va diffusa in maniera più capillare”. 

 

E le aziende agricole da che parte stanno? 

“I contadini sono anch’essi vittime del sistema capitalistico. Questo non è un alibi per permettergli di fare qualunque cosa, ma non tener conto dei cambiamenti climatici e del fatto che la globalizzazione ha creato condizioni come prezzi molto bassi e il conseguente abbandono o sfruttamento delle terre, sarebbe ingiusto. Però non ne parliamo quasi mai perché non c’è un’alleanza. Il contadino non è un nemico e un’alleanza serve. Le lotte per portare un vero cambiamento si devono fare all’interno delle aziende con operai che denunciano e in alleanza con i contadini. Io sono a favore di questo. Anche perché se sono 40 anni che continua così, ci dobbiamo chiedere perché”. 

 

Come associazione cosa fate nel concreto? 

“Noi come “No Cap” andiamo dalle aziende per cercare un dialogo. La lotta va fatta insieme e all’interno dei luoghi di lavoro, coinvolgendo tutti i lavoratori. Altro punto, è cambiare modello produttivo non con slogan, ma con azioni. Passiamo dalla protesta alla proposta. La rivoluzione non deve essere solo culturale, ma anche economica. I processi produttivi vanno controllati fino alla distribuzione, va osservato l’andamento del mercato, altrimenti non cambieremo mai. Servono persone che anche se fanno parte della grande distribuzione, ripongano più attenzione ai diritti”. 

di Sabika Shah Povia

Leggi tutti gli articoli di questo numero

 

In Italia non mancano braccia ma diritti
Torna su