La quarantena è stata anche condivisione e empatia. Ma non per tutte
Vivo a Ramallah in un palazzo di tre piani. 4 condomini e 4 microcosmi che raccontano meglio di tanti saggi cosa significa la vita ai tempi dell’emergenza Covid-19 in Palestina. Al primo piano vive una famiglia: papà, mamma e quattro bambini che dal 5 marzo passano le giornate nel cortile davanti a casa a giocare prevalentemente a nascondino. Prima i 4 bambini partivano tutte le mattine con i loro zainetti verso la scuola vicina. Ora nel cortile polveroso passano le giornate a rincorrersi, a volte cadono, si sbucciano le ginocchia. Parte qualche discussione, qualche pianto, consolato dagli stessi piccoli e via così. Al piano di sopra vivono tre donne: mamma e tre figlie. Una di loro è un’insegnante e un’altra lavorava in un salone di bellezza, anche questo chiuso con il lockdown. Escono poco e solo di mattina, come me d’altronde.
Le strade semi deserte aumentano la probabilità di aggressioni alle donne, a Ramallah come a Firenze e ovunque nel mondo. È proprio vero che le strade sicure le fanno le donne che le attraversano, come recita lo slogan di “Non Una Di Meno”, ma questo periodo ha dato conferma anche che la violenza e l’abuso restano terribilmente concentrate dentro casa.
L’organizzazione palestinese Women’s Center for Legal Aid and Counselling riferisce che nel mese di aprile gli interventi di supporto sociale e legale sono aumentati del 75% rispetto a marzo e il loro numero verde, per mezzo del quale forniscono un primo ascolto e consulenza ha ricevuto il 65% di chiamate in più. Sono principalmente le donne in città a chiamare e una netta maggioranza lamenta deprivazioni sociali ed economiche, violenza psicologica, minacce di morte e violenza fisica. L’organizzazione palestinese Sawa rivela anche un aumento del 20% delle chiamate da parte di giovani e adolescenti che chiedono un sostegno psicosociale e psicologico per abusi da parte dei loro padri, madri, e fratelli a casa. Non per tutte e tutti casa vuol dire quindi sicurezza e calore. Non per tutte è un posto in cui tornare e passare piacevolmente la giornata, magari a chiacchierare sui pianerottoli o a cantare nei balconi. Nel mio palazzo però la musica è offerta comunque dalla palestra di fronte, che nonostante il lockdown, tutte le sere alle 18 invita gli abitanti della via a fare qualche esercizio a ritmo. Ed anche il cibo è occasione di socialità e scambio, anche e soprattutto in periodo di Ramadan.
In generale da quando è iniziata la quarantena è cominciato nel mio palazzo un via vai compulsivo di piatti deliziosi tra un piano e l’altro. Se si riceve qualcosa non si può restituire semplicemente il piatto pulito, bisogna rendere la gentilezza: allora basbusa in cambio di torte, falafel in cambio di pizza, qatayef in cambio di biscotti. Adesso in periodo di Ramadan ci si rammarica dell’impossibilità dei ritrovi familiari allargati serali ma continua lo scambio condominiale. I bambini del primo piano, al canto serale del muezzin, cercano di abbassare la voce, si quietano per un po’ e poi parte la frenesia della preparazione e della consegna di qualche scambio di piatti nei pianerottoli. Li senti arrivare per le scale, di corsa, litigandosi per chi arriva e consegna a chi e poi bussare alle porte lasciate sempre aperte. Bussano, ti guardano sorridenti dal pianerottolo e poi via verso altri piani.
di Anna Meli e Mariangela Piras | 19 maggio 2020