Mangeremo papaya, sparirà il radicchio

La produzione di cibo è sia vittima che artefice del cambiamento climatico 

È ormai riconosciuto che il legame tra cibo e cambiamento climatico sia forte e radicato e sia di duplice natura. Agricoltura e allevamento sono responsabili del 35% delle emissioni di anidride carbonica a livello globale e consumano il 70% dell’acqua disponibile sul pianeta. L’agroalimentare incrementa l’inquinamento, uno dei fattori che accelerano e provocano il riscaldamento globale, ma è anche un settore produttivo che risente profondamente delle conseguenze del climate change. In Italia secondo Coldiretti, negli ultimi cinque anni sono aumentate del 60% le aree coltivabili di Calabria e Sicilia dedicate ad alberi da frutto tropicali. Mangeremo, dunque, papaya a chilometro zero? E quali sono, invece, i cibi che troveremo sempre meno? Fabio Ciconte, direttore dell’associazione ambientalista Terra! Onlus e portavoce della campagna “Filiera Sporca” contro lo sfruttamento del lavoro in agricoltura, da tempo si occupa del rapporto tra cibo e clima. È autore insieme a Stefano Liberti del libro “Il Grande Carrello” (Laterza) ed è tra i promotori della campagna “Giudizio Universale”.

 

Lo scrittore Jonathan Safran Foer dice che possiamo salvare il mondo prima di cena mentre per Naomi Klein sono solo le politiche e in particolare un Green New Deal ci potrà salvare. Che rapporto c’è davvero tra cibo e clima? E quanto le abitudini alimentari e i comportamenti dei singoli sono importanti per arrestare o almeno mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici? 

Il rapporto Ispra 2019 ci dice che il 23% delle emissioni inquinanti sono attribuibili al modello agricolo che è insostenibile sia perché per i sistemi di produzione dell’agribusiness lo sono, ma anche perché c’è lo spreco alimentare. Forse su quest’ultimo punto c’è meno contezza nell’opinione pubblica e nei consumatori, ma oggi lo spreco alimentare arriva al 19,10%. Questa percentuale enorme ci dice che da una parte c’è un modello di sviluppo che riduce sempre di più il ciclo del cibo (e delle merci in generale) per cui il tempo tra cibo, avanzo e rifiuto è sempre più breve, dall’altra il modello economico attuale ci ha portato a consumare molto di più del necessario. Il consumatore ha una responsabilità ovviamente nel modo in cui consuma il cibo e fa acquisti verso prodotti che non costano niente, ma dall’altra non possiamo dare al consumatore tutta la responsabilità di un mercato che spinge a consumare sempre di più e di modelli di produzione sempre più onnivori. Io penso che tra Naomi Klein e Safran Foer la risposta stia nel mezzo, ovvero il consumatore deve essere consapevole che gioca un ruolo nello spostare i mercati e questo va capito, mentre siamo ancora lontani dal capirlo veramente. Il modo in cui mangio ha delle ripercussioni sul pianeta e io posso generare una domanda diversa. 

 

Ma qual è davvero il potere dei consumatori? 

L’esempio che spesso io faccio è ovviamente quello dell’olio di palma, prodotto che quando il consumatore ha capito che poteva essere dannoso per la salute ha spinto il mercato a toglierlo. La presa in giro è che il mercato ha risposto creando il marketing attraverso questa operazione. Ha spinto a tal punto che l’assenza di quel prodotto fosse essa stessa indice della qualità del prodotto.  È per questo che io credo che solo un’azione combinata tra i mercati, le istituzioni e il singolo consumatore possa davvero funzionare. Il consumatore può giocare un ruolo quando si mette a fare sistema, senza per questo sottovalutare l’importanza dei comportamenti quotidiani dei singoli. Ad esempio noi consumiamo una quantità di carne spaventosa e il consumo sta crescendo di anno in anno e sappiamo che anche il nostro prosciutto, i bovini, il latte provengono da allevamenti intensivi che producono una quantità di scarti enorme. Un allevamento di maiali o bovini in pianura padana è particolarmente impattante rispetto alla CO2. Il modello di agricoltura industriale tende inoltre a desertificare i suoli quindi toglie anidride carbonica ed emette  CO2 in atmosfera, che non riassorbe più perché è incapace di riassorbire. 

 

Chi è più penalizzato da questa situazione? 

L’agricoltura stessa sta iniziando a pagare il conto di questa situazione e lo pagherà sempre di più. L’aumento delle temperature di un grado sta già portando delle conseguenze: non puoi più produrre alcuni prodotti dove li produci adesso. Ad esempio: lo champagne che hanno iniziato a produrre in Gran Bretagna sta andando benissimo mentre quello in Francia comincia ad avere problemi. C’è uno spostamento morfologico dei territori che non è indolore. Lo spostamento delle stagioni vegetative delle piante si sovrappone sempre di più ai fenomeni climatici estremi che fanno sì che quando le piante germogliano e fioriscono si assista anche a grandinate e fenomeni atmosferici intensi che distruggono tutto. Queste conseguenze qui le paghiamo tutti noi. Sì, mangeremo frutti tropicali prodotti in Sicilia ma non so se mangeremo il radicchio trevigiano prodotto nel trevigiano o invece in serra in Belgio. 

 

E invece quali sono le motivazioni della campagna Giudizio Universale? 

Insieme all’associazione A Sud e molte altre associazioni ambientaliste volevamo porre con forza una questione politica agli Stati. Ci siamo basati sull’esempio dell’Olanda che un mese fa ha vinto una causa dove un centinaio di associazioni più singoli cittadini hanno fatto una causa per inadempienze rispetto agli obiettivi che lo Stato si doveva dare per ridurre le emissioni dei gas clima-alteranti. A fine 2019 il tribunale ha condannato lo Stato dei Paesi Bassi e quindi dato ragione alle associazioni ed ai cittadini.  L’idea è di dire che gli Stati hanno delle responsabilità politiche importanti perché altrimenti ci troveremo tra qualche anno a bere tutti da tante borraccette l’acqua ma avremo comunque 3 gradi 3,5 e mezzo in più di media di temperature all’anno.

La campagna

GIUDIZIO UNIVERSALE – INVERTIAMO IL PROCESSO

 

È stata lanciata lo scorso 5 giugno, giornata mondiale dell’ambiente, la campagna che prevede il deposito di una causa legale contro lo Stato per non attuare misure e politiche efficaci contro i cambiamenti climatici. Sull’esempio di quello che sta succedendo in molti altri paesi, “Giudizio Universale”, promossa da movimenti, associazioni e centinaia di singoli cittadini, ha l’obiettivo di chiedere ai giudici di condannare lo Stato per la violazione del diritto umano al clima.

Per saperne di più: https://giudiziouniversale.eu/

 

Intervista a Fabio Ciconte di Anna Meli

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