Bouchard e il protagonismo delle vittime

— Intervista al magistrato fondatore della Rete Dafne sulla direttiva Ue

Riconoscere e codificare i crimini d’odio è ancora complesso. Riconoscere la centralità e i diritti delle vittime di crimini di odio, lo è ancora di più. Ma se la politica europea è abbastanza avanzata in questo senso, in Italia facciamo ancora fatica. Ne abbiamo parlato con Marco Bouchard, magistrato, presidente della seconda sezione penale presso il Tribunale di Firenze nonché fondatore e presidente della Rete Dafne, un network di associazioni che in Italia cerca di colmare le lacune lasciate da questo vuoto normativo che non prevede servizi pubblici e strutturati per le vittime. Ma il vero obiettivo, dice Bouchard, è una collaborazione pubblico-privato che garantisca servizi stabili e strutturati.

Qual è il significato della Direttiva Europea sulle vittime di crimini d’odio? 

La Direttiva europea 2012/29 arriva dopo un percorso lungo alcuni anni e va a sostituire una “Decisione Quadro” del 2001 e che riguardava soprattutto la partecipazione della vittima come parte in causa in un processo penale. L’ultima Direttiva amplia lo sguardo e si preoccupa anche di tutte le situazioni di bisogno e necessità che la vittima ha e considera il reato come una vera e propria lesione dei diritti individuali quali il diritto all’informazione, all’assistenza, alla partecipazione e soprattutto alla protezione. è finalmente uno sguardo a tutto tondo sulla vittima vista come una categoria a cui spettano attenzioni che riguardano la salute, la vita relazionale, l’inserimento nella comunità dopo un evento che è stato traumatico o dannoso. Il principio fondamentale per riconoscere i diritti delle vittime è di garantire loro una valutazione individualizzata dei bisogni per evitare sia una vittimizzazione successiva, il ripetersi del fatto, sia una vittimizzazione secondaria cioè il rischio di non essere trattate bene da chi dovrebbe assisterle: servizi sanitari, polizia, istituzioni giudiziarie… Su questa base si garantiscono cure per le vittime di grandi eventi come terrorismo, o vittime nelle relazioni strette e contesto di domestico, vittime di violenza di genere ma anche, e sempre di più, le vittime di odio, di pregiudizio e discriminazione.

Che cosa è successo con la trasposizione della Direttiva in Italia?

In Italia c’è stata solo una trasposizione a metà: qui a differenza di altri stati, la vittima nel processo penale aveva già garanzie rilevanti, e comunque sono state ulteriormente recepite alcune accortezze importanti come ad esempio l’avviso della scarcerazione (o evasione) del condannato. È mancata invece del tutto la trasposizione legata all’assistenza e ai servizi, che secondo la Direttiva devono essere specialistici e gratuiti e che devono o possono essere attivati non solo dopo una denuncia ma in qualsiasi momento di contatto della vittima con le autorità o anche con reti informali a cui si è rivolta. Mentre in altri paesi europei i servizi sono garantiti da una compartecipazione pubblico-privato (l’81 % secondo una ricerca di Victim Support Europe), in Italia no, non esiste una strategia di servizi e questa è la grande lacuna.

Quale percorso dovremmo fare in Italia perché questa “cultura dei servizi” passi?

Credo che dobbiamo necessariamente passare attraverso un intervento di tipo legislativo: quando abbiamo creato la Rete Dafne, ormai 10 anni fa, avevo sperato che proprio la strada della convergenza tra enti locali, autorità giudiziaria, terzo settore, servizi sanitari, fosse un percorso che poteva far anche nascere servizi pubblici. Invece ancora oggi servizi sono retti da fondi privati, da Fondazioni. Il pubblico dà strutture e poco di più. Ma perché i servizi siano strutturati, i finanziamenti devono essere stabili: in altri paesi sono garantiti o da una linea spesa pubblica oppure su premi assicurativi (Francia) o ancora dal versamento dei fondi dovuti per multe e ammende (Germania). Alla base ci deve essere una normativa che stabilisca la linea di finanziamento, chi eroga i fondi e come vengono ripartiti. Dal punto di vista della materia è compito della Regione, ma questa ripartizione deve essere stabilita e le Regioni devono essere finanziate da Stato. Noi siamo ancora nella fase del progetto. Il passo successivo è arrivare in Parlamento. Ho infatti intenzione di organizzare un evento nazionale per mettere al centro della questione la necessità di servizi di questa natura. Sennò continueremo sempre a muoverci nell’emergenza, mentre l’Europa sta pensando a un numero europeo noi non abbiamo nemmeno un numero nazionale. Diamoci però 4 o 5 anni per vedere se succede qualcosa di concreto a livello nazionale.

Che tipo di servizi fornisce la Rete Dafne di cui lei parla e di cui è fondatore e presidente?

La Rete connette istituzioni territoriali pubbliche e private e propone percorsi di sensibilizzazione e formazione a favore degli operatori che entrano in contatto con le vittime, per offrire loro informazione, assistenza e protezioni adeguate. Ascolto e accompagnamento sono i principali servizi offerti. In casi eccezionali si fa anche la mediazione tra vittima e autore del reato. Non si tratta di una vera e propria “presa in carico” ma si tratta comunque di dare risposte immediate e non di aspettare la fine del processo. In caso di traumi gravi la Rete dispone di collaborazioni dirette con i servizi di zona, in particolare psichiatria. A Torino, a Firenze e in Sardegna questi servizi hanno ormai una continuità mentre nel resto di Italia ci sono servizi diffusi su base volontaria che offrono comunque supporto e accompagnamento. Bisogna porre la centralità sul discorso della vittima. Non del vittimismo, attenzione, ma della cura: la cura è necessaria perché ne va della salute dei cittadini che si trovano ad affrontare esperienze dolorose.

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