— Il viaggio di Valeri dentro l’afrofobia italiana e il silenzio degli antirazzisti
È più o meno dall’800 che le persone nere sono state paragonate a delle scimmie. Perché? E perché questa narrativa resiste? Ci sono pregiudizi che perdurano per secoli e io volevo capirne le ragioni”. Mauro Valeri, sociologo noto per i suoi studi sui fenomeni del razzismo e della xenofobia, in particolare nei legami col mondo dello sport, parla dell’afrofobia: la “paura eccessiva” e l’avversione nei confronti di africani e degli afro discendenti. Così ha infatti intitolato il suo ultimo libro, “Afrofobia. Razzismi vecchi e nuovi”, un’analisi diacronica e sociologica del razzismo e anche delle sue metamorfosi: da quello schiavista a quello coloniale, da quello di Stato a quello democratico, da quello ribaltato a quello di guerra. Fino all’analisi dell’oggi, quando ha preso piede una particolare forma di razzismo, subdola, il razzismo differenzialista.
“Il razzismo classico si basava su quattro principi chiari -dice Valeri- l’esistenza delle razze, il fatto che le razze siano immutabili, che ne esistano di superiori e di inferiori e, infine, che il mescolamento tra razze volesse dire degenerazione. Negli anni l’antirazzismo ha combattuto tanto l’esistenza delle razze quanto l’affermazione di una superiorità: ma se io dico “prima gli italiani”, in quest’ottica, non è razzismo. Non dico che sono superiore ma che ognuno sta bene a casa sua. è a partire dagli anni ‘90 – ricorda Valeri – che i sociologi rintracciano questo tipo di razzismo, quello di Le Pen per intendersi, e che ora in Italia si manifesta con quel noto slogan “prima gli italiani” o “ognuno a casa sua”. Questo tipo di razzismo strisciante, che fa perno sulle differenze culturali, è stato molto abile a insinuarsi nella nostra società e ha trovato una debole reazione da parte degli antirazzisti, che non ne hanno capito la portata e che anzi hanno aperto un fronte critico interno. Del resto l’argomento del valorizzare le differenze è sempre stato un discorso caro alla sinistra. Eppure estremizzato e non ben argomentato diventa un terreno scivoloso”.
Le differenze da mettere in risalto, secondo Valeri, sono semmai quelle che riguardano le identità delle persone: “La società italiana per esempio, ha un’identità meticcia. Solo riconoscendolo e rivendicando questo aspetto, raccontandolo nei libri di storia, le differenze acquistano un valore”. Purtroppo mentre il razzismo si è “adeguato”, “evoluto”, dice ancora Valeri, l’antirazzismo si è fermato: “La mia critica è che non esiste una storia dell’antirazzismo come c’è quella del razzismo. Storicamente la vera punta di svolta riguardo a questi temi si colloca nel 1945 con la condanna della Shoa. Ma se dico che razzismo è quello che è accaduto a Aushwitz, l’asticella si alza tantissimo. Tutto il resto non lo è. Eppure ricordiamoci che nel ‘48 iniziava l’Apartheid e il colonialismo era ancora in atto”.
Un’altra critica è che l’antirazzismo non si sia accorto in tempo dell’avanzata dei “complottisti” della sostituzione etnica: la teoria secondo cui i potenti ebrei che (forti intellettualmente ma deboli fisicamente) immettono nella società i neri (forti biologicamente) per avere manovalanza gratuita. “Oggi queste teorie, forti in tutta Europa e anche negli Stati Uniti, sono sbandierate anche in Italia dalle istituzioni, dai nostri ministri. Sono molto più difficili da combattere rispetto a qualche tempo fa. è il razzismo basato sulla paura”. Insomma un fallimento delle opposizioni antirazziste che, oltretutto, precisa Valeri, si riferiscono al razzismo come un grande contenitore in cui ci sta dentro l’afrofobia, l’omofobia, le discriminazioni contro le donne, i disabili etc… “Siamo quelli dei distinguo, un fronte troppo ampio entro cui si aprono conflitti interni ed è difficile fare una battaglia comune”.
Che fare dunque? “A mio parere una strada utile da percorrere, quello che sto tentando di fare, è quella di recuperare una lettura storica in cui raccontare che i neri in Italia c’erano e quelli che ci sono oggi non sono ospiti: chi lo sa, ad esempio, che il Granduca di Toscana era meticcio?”.
L’esperto – Che razza di libri!
Mauro Valeri, sociologo e psicoterapeuta, ha concentrato i suoi studi sui fenomeni del razzismo e della xenofobia, in particolare nei legami col mondo dello sport. Ha diretto l’Osservatorio sulla Xenofobia dal 1992 al 1996, e dal 2005 è responsabile dell’Osservatorio su Razzismo e Antirazzismo nel Calcio.
Ha insegnato Sociologia delle Relazioni Etniche all’Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato diversi saggi sul tema del razzismo, tra cui: “La razza in campo. Per una storia della rivoluzione nera nel calcio” (Edup, 2005); “Black Italians. Italiani neri in maglia azzurra” (Palombi, 2007); “Nero di Roma. Storia di Leone Jacovacci, l’invincibile mulatto italico” (Palombi, 2008);
“Che razza di tifo. Dieci anni di razzismo nel calcio italiano” (Donzelli, 2010); “Stare ai Giochi. Olimpiadi tra discriminazioni e inclusioni” (Odradek, 2012); “Mario Balotelli. Vincitore nel pallone” (Fazi, 2014); con Mohamed Abdalla Tailmoun e Isaac Tesfaye, “Campioni d’Italia? Sport e seconde generazioni” (Sinnos, 2014);
“Il generale nero. Domenico Mondelli: bersagliere, aviatore eardito” (Odradek, 2015), “A testa alta verso l’Oriente eterno. Liberi muratori nella Resistenza romana” (Mimesis, 2017).
Il libro – Costruire un destino comune
“L’afrofobia è l’insieme di pregiudizi e comportamenti ostili nei confronti di persone con il colore nero della pelle o di ascendenza africana, che hanno condizionato la storia degli ultimi secoli di almeno tre continenti. Sono pregiudizi e comportamenti messi in atto in genere da persone che hanno come tratto distintivo il colore più chiaro della pelle e soprattutto hanno il potere di stabilire chi siano o meglio cosa debbano essere coloro che hanno la pelle nera. In questo modo, un dato assolutamente secondario e non unitario – come è il colore della pelle umana – diviene uno stigma all’origine di forme storiche di razzismo, come la tratta negriera, la schiavitù razziale, il colonialismo, il fascismo, il nazismo la segregazione negli stai uniti, l’apartheid e che mantiene la sua forza ancora ai nostri giorni, sebbene abbia assunto aspetti multiformi più difficili da interpretare. Anche quando la scienza ha dimostrato che avere a pelle bianca o nera non vuol dire altro che avere la pelle bianca o nera, l’afrofobia ha continuato a essere una delle modalità con le quali si stabiliscono le relazioni sociali che sono sempre anche relazioni di potere. Ed è proprio l’esigenza di potere a far sì che il diverso colore della pelle è diventato un modo per i bianchi di autodefinirsi come tali e di inventarsi il nero, il quale si trova nella difficile situazione di dover ricercare una propria identità, ben sapendo che ha solo poche opzioni: cercare quanto più possibile di negare di essere nero per diventare come il bianco, ben sapendo che non potrà mai esserlo pienamente, accettare di essere un nero così come lo vuole il bianco; accettare di essere un nero ma “inventandosi” una identità nera diversa da quella che gli impone il bianco. C’è ovviamente un’altra possibilità: rifiutare il bianco/nero. Ma perché ciò sia possibile è indispensabile che una simile scelta venga fatta anche e soprattutto dal bianco, che però implica anche la decisione di rinunciare a un potere, che spesso ha anche a che vedere non solo con il dominio e lo sfruttamento ma più semplicemente con un privilegio di status ottenuto per il solo fatto di avere la pelle più chiara. Questa opzione è stata possibile solo quando bianchi e neri hanno dato scarsa importanza al diverso colore per impegnarsi a costruire un destino comune, scelta che, pur se enunciata da oltre un secolo- oggi sembra trovare ancora pochi fautori. Pesano certamente secoli di dominio e di lotte, e non è ancora ben chiaro come possa avvenire una riconciliazione che permetta il passaggio da una società razzista a una società non razzista. Per ora i pregiudizi e i comportamenti afrofobici sono lì a ricordare implacabilmente al nero che lui è soprattutto un nero e che quindi deve rinunciare a qualsiasi desiderio di essere anche altro, perché probabilmente senza il nero, il bianco non sa più bene cosa sia”.
Mauro Valeri, Introduzione a “Afrofobia, razzismi vecchi e nuovi”