Decolonize Italy: quelle insospettabili tracce

— Sembriamo esserci dimenticati del passato coloniale dell’Italia, ma sulle strade e sui muri delle nostre città sono tanti i segni che ce lo ricordano

Ogni volta che esco di casa inciampo su un fascio littorio che fa bella mostra di sè su un tombino datato anni ’30. Non è l’unico tombino che a Roma, la mia città, risale a quell’epoca. Nessun ha mai pensato nel tempo di rimuoverlo. La prima volta che lo vidi ricordo che tremai. Che ci faceva quel fascio littorio nella mia quotidianità di nera italiana in un quartiere multietnico di Roma Capitale? Ma quel tombino non era certo solo in città. C’erano altri tombini con il fascio littorio identici a quello vicino a casa mia. La città di fatto è punteggiata da simbologie legate al fascismo e in genere al periodo coloniale.  Questa intuizione ha prodotto nel 2014 un libro, ideato insieme al fotografo Rino Bianchi, “Roma Negata” dove entrambi siamo andati a caccia, letteralmente, di quelle tracce coloniali rimaste a Roma, sia del periodo fascista sia del colonialismo precedente, quello liberale, così poco narrato. Ed è stata un po’ una meraviglia scoprire che quei monumenti, quelle strade, quelle statue erano di fatto tracce invisibili nella città. La gente li vedeva, ma non sapeva decodificarli. Quindi capitava di vivere in Via Kismayo a Roma e non sapere che il nome era stato dato alla via perchè Kismayo era una città somala e la Somalia una delle colonie italiane. D’altronde il quartiere africano a Roma (come quello detto Cirenaica a Bologna) è state rinominato in questo modo proprio per creare un legame con quelle terre conquistate e brutalizzate. Quindi può succedere che ci si baci a Viale Somalia e si litighi a Viale Libia, senza avere la più pallida idea di perché quelle vie hanno quei nomi. Non è un caso infatti che in Italia il colonialismo sia una delle pagine meno studiate a scuola, anche se va detto che, grazie all’impegno di molti, oggi la situazione è leggermente migliorata. D’altronde sono usciti molti libri, documentari, articoli. Artisti e studiosi hanno cercato di rimuovere il rimosso di quelle nefandezze che gli italiani, che si dipingevano come “italiani brava gente”, avevano compiuto in quelle terre. Il colonialismo è stato sia brutalità, sia passaggio (nonostante tutto) culturale. Avvenimenti storici che nel (poco) bene e nel (tanto) male hanno comunque creato un legame tra Italia e Africa. E forse vista sotto questa luce non è un caso che ancora oggi l’Italia, sia a livello legislativo sia a livello psico-emotivo, si comporti verso chi considera “altro” un po’ con lo stesso atteggiamento di superiorità (che poteva sfociare nella violenza o nel paternalismo bonario) con cui si trattava con i sudditi coloniali. E come se in Italia il corpo altro, soprattutto se corpo nero, fosse comunque un corpo da conquistare, emarginare o esotizzare. In questo senso i nodi coloniali, che nel dopoguerra non sono mai stati sciolti, ora sono lì a inquinare il linguaggio e gli atteggiamenti verso il migrante della nostra contemporaneità.

L’antropologa Paola Tabet nella sua celeberrima introduzione al volume “La pelle giusta” scrive a questo proposito:

Un motore di automobile può essere spento, può essere in folle, può andare a 5.000 giri, ma anche spento è un insieme coordinato […] Il sistema di pensiero razzista che fa parte della cultura della nostra società è come questo motore. […] Il suo ronzio può essere quasi impercettibile, come quello di un buon motore in folle. Può al momento buono, in un momento di crisi partire.

Il razzismo diventa realtà con la presenza degli immigrati dal 1970, ma in realtà il banco di prova del razzismo italiano sono state appunto le colonie. Somali, eritrei, libici e poi successivamente etiopi (L’Etiopia non fu colonia, ma ebbe il suo territorio occupato dagli italiani per cinque anni) hanno subito sul loro corpo un meccanismo razzista che ha portato a sperimentare proprio in colonia quel sistema di leggi e proibizioni che poi portò alle leggi razziali del ’38 contro i cittadini italiani di religione ebraica. Il 1937 e il 1938 sono due date legate dal razzismo, ora quella storia sembra apparentemente finita. Ma in realtà le tracce di quel passato dove l’Italia era padrona in Africa sono intorno a noi. Ci fanno l’occhiolino da un ponte, da una targa, da un obelisco di cui non sospettavamo a volte nemmeno l’esistenza. E non solo il fascismo è stato coloniale. Basti pensare alla stazione di Parma e ad una statua che è collocata a pochi passi da essa. La statua è quella dell’esploratore ottocentesco Bottego, un uomo che in Africa aveva fatto il bello e il cattivo tempo. E la cui coscienza era macchiata di numerose vittime innocenti. Ecco a Parma si può vedere una sua statua in trionfo, issato su una collinetta, che sembra arringare alle folle a partire verso chissà quale direzione con una spada minacciosa in mano. Ai suoi piedi, in posizione di sottomissione due uomini africani, caricaturali, pieni di piume come in uno spettacolo di cabaret. I due uomini rappresentano i due fiumi Giuba e Omo, e sottintendono una inferiorità che il complesso statuario rende manifesta. Ora è chiaro, è un complesso statuario ambiguo, come ambigue nel panorama urbanistico italiano sono altre presenze come l’obelisco Dux al Foro Italico a Roma. Ma che fare con queste tracce? Chiedere di rimuoverle o, visto che è passato del tempo, semplicemente decodificarle? Questa seconda ipotesi era quella del libro mio e di Rino Bianchi del 2014. Le tracce coloniali potevano diventare anche utili. Invece di lasciarle lì nell’oblio, potevano attraverso percorsi, attraversamenti, rinominazioni, performance artistiche diventare un puntello per non dimenticare le nefandezze del passato e allo stesso tempo cogliere i tragici punti in comune con il presente razzista italiano ed europeo. Certo non tutte le storie, le reazioni, le statue sono uguali. Basta pensare a quello che è successo alla statua di Marion J. Sims a Central Park, New York. Il dottor J. Sims padre (padre nefasto aggiungerei) della ginecologia. I suoi studi sono stati avanzati, ma a scapito delle schiave nere che usava come cavie, per di più senza anestesia. Molte attiviste si sono subito messe in moto con forme di protesta anche creative, tipo andare lì con pigiami macchiati di liquido fucsia all’altezza dei genitali, dove le schiave hanno sanguinato e sofferto. La statua è stata rimossa. E lo stesso doveva avvenire in Italia, ma non è avvenuto, per un mausoleo dedicato a Rodolfo Graziani, uno dei più efferati gerarchi fascisti, costruito non all’epoca di Mussolini, ma nel 2012 stornando dei fondi pubblici dall’uso originario, ovvero la risistemazione di un parco pubblico. Un fatto molto grave seguito da vicino dai tribunali. Ma il mausoleo della vergogna è ancora lì. Ora queste tracce non le possiamo più ignorare, soprattutto in un clima italiano dove l’altro è preso di mira dall’odio verbale e fisici. Sono tracce che lavorano nella psiche e rendono l’equilibrio della convivenza sempre più precario. Per non far andare il motore del razzismo a 5000 giri dobbiamo prenderci carico di questo passato, non dimenticarlo, rimuoverlo o ignorarlo. Lo dobbiamo conoscere (e far conoscere) e trovare, caso per caso, situazioni strutturali per decolonizzare la storia di dominazione che contengono. Solo decolonizzando lo spazio urbano (e anche in generale l’immaginario) potremmo finalmente iniziare a costruire un’Italia diversa.

di Igiaba Scego
Scrittrice e giornalista italosomala. Collabora con Internazionale e il Manifesto. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è “Adua

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