Abusi all’ordine del giorno. E della notte

— Centri illegali, mafia e corruzione: il business adesso non sono più solo le partenze ma anche le detenzioni. Tutto sulla pelle dei migranti. Ma qui facciamo finta di non vedere.

I centri di detenzione libici sono un luogo il cui odore è difficile da affrontare e difficile da dimenticare. Soprattutto, i centri di detenzione libici sono un luogo difficile da raccontare. Bisogna anzitutto abbattere delle barriere terminologiche. Sono centri di detenzione o di accoglienza, come parte della narrativa ha cercato di propagandare in questi anni? Bisogna essere chiari: sono carceri, centri di detenzione. Perché lo dice la legge libica, paese che non è firmatario della convenzione di Ginevra, paese che prevede la carcerazione (sine die) per chi venga ritenuto clandestino nel paese. L’altro malinteso da sciogliere è sulla legittimità di questi centri. In Libia ci sono due tipi di strutture, quelle ufficiali dipendono dal Ministero dell’Interno del governo Sarraj, interlocutore del nostro governo e sostenuto dalle Nazioni Unite.
Il Ministero dell’Interno libico ha un’agenzia preposta alla gestione del fenomeno migratorio, si chiama: Agenzia anti-immigrazione clandestina.
Controlla, o almeno dovrebbe, la vita nei centri. Il cui numero varia costantemente. Trentuno? Diciannove? Difficile dirlo con certezza, dato che nell’ultimo anno e mezzo i centri sono diventati strumento di negoziazione politica e aprono e chiudono sulla base delle rivendicazioni delle milizie armate.
Poi ci sono i centri illegali, quelli cioè gestiti direttamente dalle brigate che hanno il vero potere sul territorio: detengono le armi, taglieggiano i cittadini, controllano il traffico di uomini, quello di carburante e a sud quello di armi. I traffici si incrociano, e per proteggere gli introiti le milizie stanno istituzionalizzando il loro profilo, non più soltanto ragazzini armati in strada, autisti per trasportare migranti nel deserto o preparare gommoni da far partire sulle coste, ma uomini giusti, al posto giusto. Molto più simile alla nostra mafia contemporanea che a una faida tribale. La mafia dei colletti bianchi, le milizie dei colletti bianchi.
Perché le milizie oggi hanno capito che se l’affare fino a qualche mese fa erano le partenze, oggi lo sono sia le partenze che la detenzione arbitraria.
Così, con una mano continuano a organizzare i viaggi nel Mediterraneo, su gommoni sempre più carichi, sempre più pericolosi, e con l’altra prendono possesso degli uffici, controllano parte della Guardia Costiera, ricattano, manipolano e corrompono i dirigenti dell’Agenzia anti-immigrazione clandestina. Così la linea che separa la legalità e l’illegalità si assottiglia, e gli abusi si legittimano.
Ascoltiamo continuamente la parola abuso, la parola tortura, la parola violenza. La ripetizione di questi termini ci ha reso distratti. Pigri. Disabituati a domandarci cosa significhi, nella pratica quotidiana, ognuna di queste parole. Cosa sono le parole abuso, tortura, violenza, in un centro di detenzione libico?Significa essere una donna e dover partorire in una stanza sporca, senza un medico, senza un’infermiera accanto. Con il solo aiuto delle tue compagne di detenzione, che – come mi è accaduto di testimoniare a Surman – avevano accesso solo all’acqua salata, l’acqua di mare, per lavare i neonati. Abuso significa essere un minore, non accompagnato, un bambino solo, Abusi all’ordine del giorno. E della notte e ritrovarsi a dividere la cella, con finestre sprangate e la porta chiusa da tre lucchetti, con altre decine di bambini, soli come te. E se il centro di detenzione dove ti hanno confinato è in una zona pericolosa, come Gharian, dove
si incrociano interessi politici e alleanze fluide così come gli scontri armati, rischi di restare in balia dei check point chiusi e della battaglia. E rimanere per giorni senza cibo, senza abiti, senza acqua potabile. Abuso in un centro di detenzione significa che quando cala la sera, e la gestione formale del potere torna ad essere appannaggio della legge del più forte, chiunque può entrare in un centro di detenzione “ufficiale” e portare via gruppi di persone, portarli nei centri di detenzione non ufficiali, in quelli delle milizie, venderli, costringere le donne a prostituirsi nelle connection houses, ricattare le loro famiglie usando i social network per farsi spedire soldi, un riscatto. Chiedere loro, di nuovo, e per chissà quante volte, il “prezzo del biglietto”.
Violenza, nei centri di detenzione libici, però è anche la pantomima di una collaborazione con istituzioni colluse che prestano il fianco al cartello di milizie che controllano le città costiere. È assecondare una narrazione distante dalla realtà. Perché la realtà, nei centri di detenzione libici, è quella che inizia quando cala la  sera.

di Francesca Mannocchi giornalista, collaboratrice de L’Espresso

Leggi tutti gli articoli di questo numero.

Il progetto: Sostenere il sistema medico

Dal 2011 la Libia continua ad essere profondamente divisa tra governi rivali alla ricerca di legittimazione ed affermazione politica, che si scontrano in un contesto caratterizzato da un’economia al collasso e da un diffuso stato di illegalità. A questo si aggiungono i conflitti ancora in atto e la mancanza di funzionalità del sistema medico (mancanza di medicine e di risorse umane) che rende incapaci gli ospedali di rispondere adeguatamente all’aumento della richiesta. È dunque indispensabile, con la collaborazione delle autorità locali e degli attori coinvolti, operare per ripristinare e  rinforzare un sistema gravemente danneggiato, a supportare le categorie più vulnerabili per garantire equità di accesso ai servizi, e intervenire direttamente sulla popolazione per diffondere buone pratiche di prevenzione. Il progetto s‘inserisce in un percorso di promozione della salute, dello sviluppo fisico e psicosociale della popolazione della città di Sebha, con attenzione particolare ai beneficiari delle zone a rischio. Per fare questo sono stati identificati infatti quattro centri medici pubblici in cui si interverrà: Al Qarama, Abdelkafi Al Qahira et Al Manchia nella città di Sebha. COSPE, interviene nelle attività di coordinamento delle formazioni all’equipe dei quattro centri con formazioni che si svolgono in Tunisia.

Facebook
Twitter
LinkedIn
Pinterest