Le case-grotta tornano a nuova vita

— Una scuola, una cooperativa di donne e il “freedom camp”: At – Tawani è un nuovo modello di resistenza di base.

Basil ha 22 anni. Ha la voce sicura, ma lo sguardo è quello di un ragazzino. Si è appena laureato in legge all’università di Hebron dopo il diploma nella scuola di At-Tuwani. “La mia generazione è stata la prima a completare il ciclo di studi nel villaggio. Prima i bambini camminavano chilometri per andare a scuola a Yatta”. Con poche parole racconta una delle vittorie del movimento popolare di resistenza non violenta di At-Tuwani, modello per tanti villaggi in Cisgiordania: la costruzione della scuola, tirata su dagli abitanti e poi difesa dalla demolizione.
Da quell’esperienza lo scorso anno è nato a Sarura il “Sumud Freedom Camp”, esperienza con pochi precedenti nella storia recente della Cisgiordania: il ritorno su una terra abbandonata dopo il trasferimento forzato delle famiglie residenti. Ci troviamo a Masafer Yatta, il sud di Yatta. Una zona particolare, stretta tra l’Area A (secondo gli Accordi di Oslo del 1993, le parti di Cisgiordania sotto il controllo civile e militare dell’Autorità Palestinese ndr) e la Linea Verde, confine tra i Territori occupati e Israele. Colline di pietre e campi coltivati, piccole comunità palestinesi divise tra loro da colonie israeliane e separate dalle loro terre dal Muro che corre a sud: qui a esercitare piena autorità è Israele, occupazione che si traduce in demolizioni, confisca di terre e risorse idriche, divieto di costruire. Sarura è una comunità minuscola.
Le famiglie vivevano in case-grotta prima del trasferimento forzato da parte israeliana, tra il 1980 e il 1998. Qui il 17 maggio di un anno fa 300 persone hanno dato vita al “Sumud Freedom Camp”. Hanno issato cartelli di benvenuto, ripulito la zona, costruito terrazzamenti con muretti a secco e rimesso in sesto le grotte.
Obiettivo: lanciare un nuovo modello di resistenza popolare, collettiva e pratica, con un immediato riferimento alla presenza sulla terra in una zona in cui Tel Aviv ha distrutto le tende, chiuso le grotte e coperto le cisterne d’acqua.
In un anno e mezzo di presenza, 24 ore al giorno, i giovani di Masafer Yatta e i comitati locali hanno riportato la vita: “I giovani sempre presenti sono 13, da diversi villaggi di Masafer Yatta. Tra noi ci sono cinque ragazze”, ci spiega Sami, uno dei giovani responsabili del campo.
Le grotte, abbandonate all’incuria, sono state ristrutturate, le mura ricostruite, la terra ripiantata con alberi di ulivo. E la cava principale è diventata luogo di incontro e dibattito: “Dal 17 maggio scorso – dice Hafez, leader del comitato popolare di At-Tuwani – non siamo mai andati via. È la prima presenza fissa dagli anni Novanta. Allora le violenze di coloni ed esercito avevano costretto le famiglie palestinesi ad andarsene. Sarura si trova tra due insediamenti, Havat Ma’on e Avigayil, illegali per il diritto internazionale e la stessa legge israeliana. Quello che Tel Aviv vuole fare è appropriarsi di queste terre per collegare le due colonie tra loro”. Nella grande grotta i giovani del campo hanno piastrellato il pavimento per renderlo più accogliente. È qui che si svolgono le riunioni, si discute del futuro. Si balla la dabka, si condivide il cibo, si tengono tavole rotonde. “Ora siamo impegnati a costruire dei bagni – continua Sami – Le famiglie del villaggio, che da vent’anni vivono a Yatta, vengono a dare una mano. Prima tornavano a Sarura una o due volte l’anno, ma da quando c’è il “Sumud Freedom Camp” vengono anche 3-4 volte la settimana. Lavorano alle ristrutturazioni e irrigano gli ulivi. Hanno molta più attenzione per la loro terra perché non hanno più paura anche se l’esercito israeliano ci ha aggredito più volte. Ci ha picchiato, confiscato i materiali di lavoro e portato via i materassi e i generatori. Anche i coloni si presentano, spesso di notte. Ma non ci arrendiamo, con la resistenza non violenta vogliamo dare sicurezza alle famiglie di Sarura per convincerle a tornare”.
“Resistiamo alle politiche israeliane con comitati locali – continua Basil – Giovani e adulti donne e uomini. Costruiamo case, facciamo interposizione fisica contro le demolizioni, accompagniamo le famiglie nei campi per difenderle dalle aggressioni dei coloni e monitoriamo le violazioni israeliane L’idea è ricostruire un’unità palestinese di base. Da anni ogni villaggio resiste da solo contro la “sua” occupazione, ma manca un coordinamento generale. Eppure combattiamo lo stesso tentativo di portarci via dalla terra”. Il sud di Hebron è un microcosmo delle pratiche di occupazione ed espansione coloniale: il corridoio di terre tra le principali città palestinesi e il Muro è Area C, in parte dichiarata da Tel Aviv zona militare e firing zone.
Al divieto per i palestinesi di costruire case e infrastrutture, si aggiunge l’ampliamento delle colonie sorte dopo il 1967 che spezzano la continuità del territorio palestinese, riducono al minimo la libertà di movimento e trasformano in un’utopia la nascita di uno Stato palestinese su quel che resta della Palestina storica.
Ma è anche un microcosmo della resistenza popolare. Uno dei suoi cuori è la cooperativa delle donne di At-Tuwani, aperta nella casa in cui ci troviamo, antica costruzione in pietra nel centro di At-Tuwani che la famiglia di Basil ha ereditato dalla trisnonna. “Negli anni ’50 Masafer Yatta era un luogo vivo – dice il padre di Basil – Era il passaggio per chi andava in pellegrinaggio alla Mecca. Nel 1967 è cambiato tutto”. Le 40 comunità si sono ritrovate sotto occupazione militare, come il resto della Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. “Viviamo di pastorizia e agricoltura. Produciamo yogurt, uova, olio d’oliva. Tutto è cambiato negli anni ’80 con la costruzione della Strada 60, bypass road israeliana che ha diviso le comunità. L’Amministrazione Civile israeliana promise a contadini e pastori che quella strada avrebbe migliorato la loro vita. Invece l’ha stravolta: sono arrivati i primi container, le recenzioni e poi gli insediamenti”.
“Nel 2000, però, la Corte Suprema israeliana ha ordinato lo stop all’espansione coloniale sulla base di un master plan di epoca ottomana che riconosce la legittimità di questo villaggio”. Camminiamo per At-Tuwani per le vie scoscese che portano in cima alla collina. Lungo le strade, alcune sterrate, altre in asfalto, si costruisce. I pali dell’elettricità portano energia nelle case, dai rubinetti scorre acqua corrente: da qualche anno non c’è più l’obbligo di acquistare le costose cisterne d’acqua della compagnia israeliana Mekorot. At-Tuwani ha ottenuto tutto con la resistenza: “Abbiamo agito come un corpo unico – continua Basil – Con la cooperativa delle donne, l’interposizione fisica, i ricorsi ai tribunali. E dal 2003 sono arrivate ad At-Tuwani due organizzazioni, l’italiana Operazione Colomba e i Christian Peacemaker Teams”.
“La resistenza è duplice: legale, nelle corti israeliane, e fisica, con i nostri corpi e le donne in prima fila che formano i cordoni per proteggere le case dalle demolizioni”. Basil guarda con orgoglio la sua scuola, è da qui che è uscita una laurea in legge e la voglia forte di restare.

di Chiara Cruciati
Giornalista di Il Manifesto e Nena News

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