Intervista a Porpora Marcasciano di Pamela Cioni
“Quando accendi una lanterna per illuminare il tuo percorso, illumini anche il percorso di altri”. E viceversa. È questo antico detto buddista che sembra aver guidato la carriera e la vita di Porpora Marcasciano, “Ho imparato nel tempo – ci dice – che le cose non si fanno mai in solitaria: si fanno per sé stessi, per gli altri e soprattutto con gli altri”. Porpora Marcasciano, attivista, scrittrice, saggista, è oggi un punto di riferimento per il movimento queer in Italia e non solo. Da poco è stata candidata al Premio Nobel per la pace dallʼUniversità Paris Citè (la proposta arrivata nel settembre 2024 è stata resa ufficiale nel febbraio del 2025 ndr). I motivi della candidatura sono molti, ma abbiamo chiesto a lei di ripercorrere le tappe del suo lungo percorso di impegno come attivista e intellettuale.
Come si sente dopo questo incredibile traguardo che è una candidatura al Premio Nobel?
È arrivata così allʼimprovviso che ci ho messo alcuni giorni per elaborarla, allʼinizio non avevo nemmeno le parole per rispondere al comitato che lʼha promossa: una volta accettata però mi sono piovuti addosso, a parte i numerosi complimenti, anche tantissimi inviti e molte proposte. Sono stata travolta da molte cose bellissime e inaspettate. Chiaramente questo non può che farmi piacere e mi rende particolarmente gioiosa, in un momento storico in cui è sempre più difficile esserlo, ma mi mette anche molta responsabilità addosso, verso tutte quella categoria di persone che io ho seguito e di cui faccio parte, e che a lungo non hanno avuto voce, per esempio le persone trans. Vedremo poi cosa succederà da qui a novembre (quando sarà assegnato il premio ndr) ma comunque già così è un successo importante e molto simbolico.
Qual è il percorso, la storia sia personale che di attivista, che ha portato Porpora Marcasciano a questa prestigiosa designazione?
Chiaramente i passaggi li ho fatti inconsapevolmente, li ho fatti perché li sentivo, facevano parte di battaglie che andavano fatte. Mi piace ricordare, perché non si dice quasi mai, che il mio attivismo nasce negli anni ʼ70 nel mondo della sinistra, più o meno radicale: ho iniziato con il Collettivo del mio liceo organizzando un doposcuola per i bambini di un quartiere proletario del paese, per poi andarmene in città, perché da quei paesi si va via – parliamo di San Bartolomeo, profondo sud in provincia di Benevento. Andai a Roma e lì ho cominciato il mio attivismo con i collettivi gay – perché in quel momento non cʼerano ancora le parole, le definizioni adatte per capire chi fossi veramente. Lì contribuii alla formazione del collettivo che si chiamava Narciso che poi è diventato lʼodierno circolo Mario Mieli. Alla fine degli anni ʼ70, passai al Mit (Movimento identità trans) e lʼimpegno era tutto incentrato sullʼottenimento della legge 164, quella che permette il cambio di sesso, che fu approvata nellʼaprile 1982. E credo di poter dire che i successi più grandi ci sono stati proprio con il Mit, negli anni ʼ90. In particolare, con quello di Bologna, città laboratorio che è sempre stata terreno fertile per queste iniziative, dove riuscimmo a creare una serie di servizi e progetti dedicati alle persone trans – che tuttora esistono e che sono diventati oggi un vero e proprio modello. Allʼepoca fu ad esempio creato il consultorio per la salute (collegato alla Asl) che oggi conta circa 3000 persone prese in carico e offre un pacchetto completo di assistenza: psicologi, endocrinologi, operatrici sociali. Subito dopo mettemmo a punto la strategia di riduzione del danno per le persone che si prostituivano. Poi sono nati gli sportelli legali, gli sportelli migranti, le case alloggio per persone fragili, anziane, malate, sole, ma anche per richiedenti asilo e per persone senza fissa dimora, arrivando poi allʼesperienza del carcere. Dopo molte battaglie, oggi ad esempio il carcere di Reggio Emilia ha un reparto trans. Ultimamente poi ci state le lotte per lʼottenimento della legge Zan. Poi è arrivata anche la candidatura al Consiglio Comunale di Bologna dove sono stata eletta presidente della commissione pari opportunità. Insomma, tutto questo è stato un susseguirsi di fatti e di cose che non avevano la consapevolezza di un fine, il fine era aiutare quanta più gente possibile.
E da unʼesperienza di politica diciamo “istituzionale” cosa ha imparato, dopo anni di attivismo nella società civile?
Il passaggio chiaramente è stato grosso, ma per quanto mi riguarda non ha segnato uno stacco tra un prima e un dopo, anzi credo sia stato un prolungamento di quellʼattivismo, quasi una sorta di riconoscimento. Non avevo mai pensato al Consiglio comunale, però quando mi fu proposto nel 2021 dallʼattuale vice sindaca, accettai immediatamente. Appena reso pubblico si sono create moltissime aspettative. Ad oggi non so se le ho soddisfatte perché stando lì “dentro” è tutto un poʼ più complesso, però mi è servito per imparare un tipo di politica che mi ha visto più consapevole rispetto al dialogo con la società civile: ho capito che il “fuori” conosce poco quello che succede nel palazzo e viceversa. Se ci fosse più consapevolezza da ambo le parti le cose potrebbero produrre molto di più di quello che producono già e in questo periodo ne avremmo molto bisogno e mi riferisco soprattutto allʼunità.
In questo momento cʼè proprio un contesto particolarmente buio dal punto di vista politico e dei diritti. Avresti mai pensato dopo tutti questi anni di lotti di attivismo, di arrivare oggi nel 2025 a questo?
Devo essere sincera, non lʼho voluto mai pensare, però lʼho sempre sentito in agguato. Noi viviamo in una cultura patriarcale che non è stata cancellata oppure bypassata, ha continuato ad esistere. Noi, come movimenti di sinistra e queer, abbiamo avuto dei momenti di grande forza che sono stati negli anni ʼ60, ʼ70, ʼ80, e forse anche ʼ90, ma già da quegli anni è cominciata unʼideologia e delle pratiche striscianti e subdole, che noi percepivamo ma che non si volevano vedere. In ogni caso non mi sono mai illusa perché i diritti, oltre a essere conquistati devono essere difesi. Oggi lo vediamo molto chiaramente, non solo in Italia, in diverse parti del mondo, perché si sta rinforzando quella parte più conservatrice o fondamentalista, – perché di questo si tratta – che vede in quei diritti qualcosa che viene sottratto ad altri e non come qualcosa che porta tutti su uno stesso piano per lʼaccesso ai diritti.
In questa situazione, prima ti riferivi alla mancanza di unità del movimento, e di fronte a questi scenari, che cosa cʼè da fare, secondo te, adesso per ritrovarla e per essere più incisivi nel portare avanti le istanze della società civile?
Cʼè intanto da rimboccarsi le maniche, cʼè soprattutto da leggere il mondo, perché noi non siamo isolati dai contesti e quindi anche dal mondo. In generale si fa lʼerrore di pensare di avere la ricetta in tasca. Ognuno ha la sua e si procede un poʼ come una grande armata Brancaleone. Quello che cʼè da fare a mio avviso è riconoscere le diversità di discorso, le diverse ricette e farle diventare qualcosa che rientra in un unico percorso. Questo sicuramente è imprescindibile, le differenze arricchiscono, non sottraggono. Mentre dentro i movimenti è in atto una disgregazione progressiva e pericolosa. Quindi, allʼinterno di un discorso più allargato, direi di sinistra, umanista – chiamiamolo come vogliamo, va fatta quindi unʼoperazione di coscienza e di intelligenza critica. Inoltre, secondo me unʼurgenza è razionalizzare lʼuso dei social: non possiamo rimanere nel mondo virtuale, dobbiamo riempire le piazze, non solo quelle delle manifestazioni o delle proteste, ma i luoghi del fare, quelli in cui si opera, si fanno laboratori dove si costruiscono pratiche sociali, culturali, perché è quello che possiamo fare – e lo abbiamo sempre fatto bene. È quello che Gramsci definisce lʼintellettuale organico, non basta essere teorici, bisogna anche mettere le mani nella terra, e credo che questo sia uno dei passaggi da fare.
Su questo come vedi le generazioni future?
Le generazioni future sono state abituate a un mondo virtuale, perché sono cresciute davanti ai social, però credo che siano quelle che si stanno rendendo conto per prime che bisogna uscire dal virtuale. Lo vedo agli incontri che faccio nelle università, e che sono spesso piene di giovani. Tutti questi ragazzi sentono lʼesigenza dei corpi, della presenza dei corpi, della fisicità.
Da questo suo osservatorio sui giovani, sulle nuove generazioni, secondo te dal punto di vista dei diritti civili, quali saranno le questioni più importanti per loro?
Io credo che una sia fondamentale, imprescindibile, quella ecologica, la salvezza del pianeta. Siamo a un punto di non ritorno e i grandi della terra, i potenti, continuano a rinviare, ma non possiamo più rimandare perché il pianeta non ci sopporta più. Il consumo, lo straconsumo che ne abbiamo fatto è stato uno scempio, la natura si sta ribellando. I giovani questo lo sentono ed è una grossa battaglia che portano avanti, quella per lʼambiente. Ma questa battaglia non è disunita da quella per i diritti in generale, per i diritti umani, sociali, civili, quindi sono intrecciati e sempre più spesso, si parla di intersezionalità, per intersezionalità si intende che le battaglie nel loro complesso sono tutte intersecate e che hanno unʼunica matrice e quindi penso che su questo i giovani non devono avere insegnamento da nessuno, lo sentono e lo fanno.