di SARA PERNIOLA
“One day one day” è un prezioso documentario che in 78 minuti racconta un anno di vita di alcuni dei migranti africani nella baraccopoli di Borgo Mezzanone, nel Foggiano. Imbrigliati nel caporalato, questi ragazzi ci ricordano cosa voglia dire vivere clandestinamente in Italia oggi, con fame di dignità nei loro sguardi. Diretto dal giovane regista Olmo Parenti e coprodotto dal collettivo “A thing by” e dalla community di divulgazione “Will Media”, il lungometraggio, che è stato anche vincitore del Premio Cipputi 2022, assegnato da Torino Film Festival, getta una luce decisa su una realtà complessa e dolorosa che non possiamo ignorare.
Olmo, com’è nato questo progetto? Deriva da uno specifico background che hai sempre avuto e nutrito verso queste tematiche?
Questo progetto è nato per una serie di coincidenze e no, non avevo alcuno specifico background; fino a due anni fa non avevo nemmeno ben chiaro cosa volesse dire la parola “caporalato”. La prima coincidenza è che un caro amico fa un servizio televisivo sulla filiera agricola. Ne rimango molto colpito e inizio ad informarmi su tutto quel mondo. Qualche settimana dopo George Floyd viene ucciso a Minneapolis e come d’incanto anche le coscienze di moltissimi italiani vengono risvegliate. Pochi giorni dopo mi ritrovo a manifestare con migliaia di persone a Milano sotto la pioggia e mi chiedo: ma com’è possibile che non lo si faccia anche per chi coltiva ciò che mangiamo qui, a casa nostra? Come faccio a rendermi utile? Mi rispondo che nella vita faccio i documentari, dunque perché non andare a vedere in prima persona che cosa succede in quei territori lì?! Ed è in questo modo che, insieme al mio gruppo di amici, siamo scesi in Puglia e ci siamo messi al lavoro. Ci è voluto pochissimo tempo per capire che il caporalato e lo sfruttamento erano soltanto le conseguenze di una questione più ampia: il fatto che senza documenti non si possa avere accesso ad una vita normale nel nostro paese. “One Day One Day” infatti non parla di caporalato, ma di cosa voglia dire vivere clandestinamente in Italia oggi.
Che impatto emotivo hai avuto nel girare il film? Il riconoscere la complessità del fenomeno che cosa ti ha fatto pensare e provare?
È stato molto potente. Alla fine queste persone sono diventate nostre amiche e quindi ci siamo aperti con loro e loro con noi. Fa parte del nostro mestiere e del nostro modo di vivere: è così che ci si guadagna “l’accesso” ad una comunità, ma è anche così che costruisci un’amicizia che vale la pena. Inizialmente la complessità del fenomeno ci ha fatti tornare a casa un po’ rassegnati: per quanto alcuni ragazzi del film abbiano la speranza che un giorno le cose possano cambiare, alle volte sembra che il sistema in cui siamo incastrati non lo permetterà mai e che quindi “One Day One Day” non arriverà mai. Pensi di essere solo nel tentare di combattere l’indifferenza della gente, ma poi, quando vedi migliaia di persone venire a parlare con te, con le lacrime agli occhi dopo, ad esempio, la proiezione del documentario in piazza Maggiore a Bologna, capisci che non lo sei e che tanti altri si impegnano per vivere in un mondo più giusto. Di questo dovremmo interessarci tutti: ci tornano utili gli immigrati perché fanno in modo che il cibo arrivi sulle nostre tavole e poi non vogliamo metterli in regola? Credo che la questione trascenda qualsiasi idea o propensione politica; dare un permesso di soggiorno a chi ci coltiva le cose da mangiare non è né di destra né di sinistra: è semplicemente giusto.
Come ha reagito la comunità a tutto questo?
Direi abbastanza bene. Abbiamo portato il documentario nelle scuole (è stato visto da quasi 7000 studenti) e chiaramente i ragazzi del territorio, pur sapendo che vicino a loro esiste una realtà del genere, non ci avevano mai avuto a che fare, essendo così problematica. Sono stati subito ricettivi; ci hanno chiesto che cosa avrebbero potuto fare per aiutare chi, con soli pochi anni in più, conduce una vita così distante dalla loro. Per quanto riguarda gli adulti, invece, abbiamo avuto principalmente un riscontro da chi era già nel campo dell’associazionismo ed era già a conoscenza di questo problema sul territorio.
Dietro le quinte: come hanno risposto i ragazzi che sono stati ripresi? In che rapporti siete adesso e le loro vite sono cambiate?
Questi ragazzi difficilmente entrano a contatto con la nostra cultura, vivendo in mezzo al nulla raramente frequentano italiani. Quando però qualche italiano miracolosamente entra in contatto con loro si aprono tantissimo. Dal primo momento in cui siamo entrati nella baraccopoli siamo stati accolti benissimo; erano tutti molto sorpresi di vederci lì. I protagonisti del film li sentiamo quasi quotidianamente. Uno di loro oggi vive nel nostro studio a Milano. Molti altri li abbiamo persi di vista perché spesso non hanno i soldi per fare le ricariche al cellulare o semplicemente lo hanno perso. La grande maggioranza continua a vivere lì, li abbiamo incontrati a distanza di un anno dalla fine delle riprese quando siamo tornati a Foggia qualche mese fa. Uno dei protagonisti invece è partito per la Germania, ma è stato arrestato al confine con l’Austria perché non aveva il permesso di soggiorno. Dopo un mese di galera l’hanno rispedito in Italia, a Venezia. Gli è stato detto che era libero di tornare nel suo Paese. Ora ci sta provando di nuovo. La cosa drammatica è che il loro viaggio spesso diventa un giro dell’oca dove riparti sempre dal via mentre il tempo passa. Se ti va bene non perdi la speranza, perdi anche la testa.
Quanto pensi le ong possano aiutare a migliorare questo fenomeno, facendo – in proporzione alle loro possibilità – quello che fondamentalmente dovrebbero fare le istituzioni?
Le ong, gli enti e le organizzazioni penso che spesso facciano un gran lavoro, anche se a volte con risorse troppo scarse ed altre dovendo fare i conti con l’ostruzionismo dello Stato (ho fatto un’esperienza sulla nave di una ONG e l’ho percepito moltissimo). Non è un mondo scevro da esempi negativi: molte associazioni, come il Cara a Borgo Mezzanone (di fianco alla baraccopoli), probabilmente potrebbero fare di più (parlo sulla base di testimonianze di ragazzi che ci vivono attualmente). In generale credo che sia un po’ il tema del nostro tempo in materia di migrazione, come di clima: tocca a noi. Quando lo Stato non fa abbastanza sta alle organizzazioni, alle aziende e anche a noi cittadini fare quello che serve. Dobbiamo consumare meglio, essere coscienti del costo (sociale e ambientale) delle nostre azioni e lottare per ciò in cui crediamo senza lasciare che il sentimento d’impotenza ci renda davvero tali. La giustizia non funziona se ti batti solo quando ci sei di mezzo tu. Dobbiamo sentirci responsabili, recuperare un’identità collettiva e dare una mano ognuno con le proprie possibilità. Quando lo fai quello che ti ritorna è impagabile: impari, condividi un pezzo di vita con gli altri e la sera vai a dormire più felice.
Quale è stato il ruolo delle donne mentre giravate il documentario, assistendo alla vita nella baraccopoli?
Le donne a Borgo Mezzanone sono poche (forse un 5% rispetto al totale della popolazione). Generalmente lavorano in tre tipi di attività: piccoli ristoranti improvvisati, parrucchiere o prostituzione. Abbiamo parlato con molte di loro, ma non siamo quasi mai riusciti a riprendere le conversazioni. Essere una donna in una baraccopoli è molto più complesso che essere un uomo; lo scetticismo verso il prossimo è uno dei pochi meccanismi di difesa a loro disposizione. Probabilmente andrebbe fatto un intero “One Day One Day” solo sulle donne.
Quali sono i vostri progetti per il futuro? State lavorando già a qualcos’ altro?
Stiamo lavorando ad un altro progetto sul cambiamento climatico (e tutto quello che ne consegue). Stiamo capendo come finanziarlo, non voglio spoilerare altro (le idee invecchiano velocemente nella testa delle persone). A noi sembra un progetto bello e necessario che viaggia in una direzione simile a One Day One Day. Il tema è diverso, ma si tratta sempre di persone costrette a cambiare per poter vivere in maniera dignitosa.