di ANDREA DE GEORGIO
Dobbiamo preservare l’ambiente: è questo il primo seme da piantare nelle nuove generazioni
È una mattina come tante a Niayes Thiokers, caotico quartiere di Dakar che sorge all’ombra dei palazzoni e delle insegne luminose di Plateau, sede del potere politico ed economico del Senegal. All’incrocio fra il palazzo di Giustizia e la strada che, dietro la prigione di Reubeuss, porta alla brulicante stazione dei “cars rapides” (i leggendari furgoni dipinti del trasporto collettivo) di Lat Dior, due ragazzi armati di piccone e martello spaccano alacremente il cemento dello spartitraffico al centro dello svincolo. Ad ogni colpo vibrato, la terra rossa riemerge da sotto il catrame. Sullo sfondo, un uomo esile alto quasi due metri si fa largo fra l’incessante traffico di vetture, pedoni e carretti. Sulla spalla porta un imponente pilastro di metallo color oro. Attorno a lui uno sciame di bambini con scope, palette, vasi e piante scorrazza felice fino al marciapiede.
“Oggi, con l’aiuto dei ragazzi del quartiere, abbelliremo questo incrocio piantando palme e sculture, così finalmente i passanti smetteranno di gettarci i rifiuti”. Bassirou Wade, “detto Bass”, è un artista sulla cinquantina, figlio di Niayes Thiokers. Discendente di una grande famiglia di forgeron (fabbri) senegalesi, fin da giovanissimo si è dovuto arrangiare da solo e, abbandonata la scuola a 12 anni, ha cominciato a praticare diversi mestieri manuali. “Ho imparato a conoscere il legno e altri materiali, ma il mio elemento naturale è il metallo” racconta con una punta di fierezza che gli scalda la voce. “Non importa se è duro o incandescente…il ferro è malleabile per me, riesco a farci tutto quello che desidero”.
Sempre vestito con larghe tute da meccanico, guanti da lavoro, scarponi anti-infortunistici e impenetrabili occhiali da sole, Bass è un punto di riferimento per l’intera comunità di Niayes Thiokers. Da quando, da bambino, riparava le radio dei vicini, alle prime creazioni – come i motorini cinesi riadattati per poter essere guidati dai portatori di handicap – fino alle decine di giovani artisti formati fino ad oggi, la sua vocazione è rimasta invariata: “coltivare lo scambio umano e il rispetto per la natura”. In tutto il quartiere si possono ammirare le sue sculture: forme animali che prendono vita dalle pieghe della lamiera scolpita, atipici monumenti metallici posti in cima a colonne di barili e vecchi pneumatici, aquile e sontuosi cavalli che dominano slarghi e svincoli stradali, “utili anche a frenare la folle corsa di camion e veicoli”.
A pochi passi dal “giardinetto” spartitraffico, sulla stessa strada del tribunale, si affaccia l’atelier “Bass Design”, disordinato regno di questo artista poliedrico. Se non fosse per la facciata ornata da finestre colorate, piante con vasi dipinti e un enorme orologio in ferro battuto con le lancette impazzite, sarebbe difficile distinguere questo spazio dai garage di meccanici, carrozzieri e saldatori che si susseguono tutti
uguali lungo le vie del quartiere. Nonostante assomigli più a un deposito di materiali di recupero accatastati alla rinfusa – pezzi di macchine, motorini smontati, legni, vetri, plastiche, vecchi televisori, radio, lampade, vinili, ecc. – in questo insolito FabLab hanno preso forma tutte le opere che negli anni hanno valso a Bassirou Wade esposizioni, riconoscimenti e premi, nazionali e internazionali. Come, ad esempio, le ali mobili con penne in tessuto wax protagoniste degli scatti della giovane fotografa franco-beninese Laeïla Adjovi, vincitrice, proprio con questo progetto, nel 2018 del Premio Senghor alla XIII Biennale d’arte contemporanea africana Dak’Art. O ancora l’originale e colorato carretto itinerante per il lavaggio delle mani, realizzato per le scuole e i villaggi delle zone rurali senegalesi, in cui non c’è accesso all’acqua corrente, ed esposto la scorsa primavera in Francia in occasione di una mostra sulle risposte artistiche globali alla pandemia di Covid-19.
“Ridare vita ad oggetti che sono stati gettati via, considerati come immondizia, e riassemblarli in nuove creazioni. Questa, per me, è l’arte”. Bass, sempre accompagnato da un nutrito stuolo di piccoli aiutanti, si dirige verso la spiaggia che si trova poco
ENGAGÉ
©RaiNews24
lontano dal suo atelier per raccogliere sassolini e rifiuti rigettati indietro dall’oceano. “In un sol colpo puliamo la spiaggia, facciamo attività fisica e recuperiamo materiale prezioso per abbellire il nostro giardinetto all’incrocio” annuncia soddisfatto alla sua giovane ciurma, un po’ maestro di vita, un po’ pifferaio magico. Dopo un intero pomeriggio trascorso in spiaggia, il gruppo fa ritorno alla base con un lauto bottino di bottiglie di plastica, reti, corde, stracci di abiti, conchiglie e sassi. “Dobbiamo preservare l’ambiente. È questo il primo seme, il più importante da piantare nelle nuove generazioni”, confida Bass bevendo un caffè al chiosco davanti al suo studio.
L’impegno e le convinzioni civiche di Bassirou Wade si ritrovano anche nella sua pluriennale militanza all’interno del Laboratorio Agit’Art, celebre collettivo pluridisciplinare creato a Dakar nel 1974 dall’artista Issa Samb, dal regista Djibril Diop Mambéty, dal pittore El Hadji Sy e dal drammaturgo Youssoupha Dione. Engagé, rivoluzionario e sovversivo, questo agguerrito gruppo di artisti senegalesi gravita oggi attorno alla figura del pittore, poeta e scultore Joe Wakam, intimo amico di Bass. Come si può notare anche da questa esperienza, l’arte africana si caratterizza soprattutto per il suo carattere comunitario. Attorno ad ogni talentuoso artista, infatti, prospera un gruppo, una piattaforma culturale, un collettivo creativo che condivide ideali e tecniche, collaborando nella
realizzazione di mostre, istallazioni ed opere d’arte di strada, a completa fruizione della comunità locale (oltre che, soprattutto grazie ad internet, di un crescente pubblico internazionale).
Quello che incarna il laboratorio Agit’Art è l’approccio critico alla vita politica e sociale quotidiane, spina dorsale dell’espressione artistica africana e della sua partecipazione attiva agli attuali processi di globalizzazione e modernizzazione. Così ponendosi, l’arte contemporanea del continente, in ogni sua più autentica espressione, dalla letteratura al teatro, dalla pittura alla fotografia, dalla danza alla scultura, dalla poesia al cinema, solleva importanti quesiti sul vivere comune.
L’arte partecipativa ad alto contenuto sociale di Bass e quella più politica dei suoi compagni di Agit’Art sono solo alcuni dei tanti esempi del variopinto panorama espressivo che, nell’ultimo decennio, ha riportato l’Africa occidentale al centro di un vero e proprio Rinascimento sempre più interessante. In questo ampio processo di riappropriazione culturale, di cui il neopanafricanismo è il naturale riflesso politico, la Dakar del primo Festival Mondiale delle Arti Nere – evento fortemente voluto nel 1966 dall’allora presidente-poeta Léopold Sédar Senghor e che ha segnato l’inizio dell’epoca delle Indipendenze africane – torna oggi ad irradiare la regione e l’intero continente, presentandosi come vetrina
per giovani artisti e crocevia di scambi e ibridazioni transfrontaliere.
Come dopo ogni lunga giornata di lavoro, Bass chiude le saracinesche che danno sulla strada e si ritira al piano superiore del suo atelier soppalcato. “Il mio ufficio” scherza salendo le scalette, prima di abbandonarsi su un trono fatto con reti da pesca, salvagenti, galleggianti e ancore saldate che occupa il poco spazio libero dai cumuli di fotografie, i ritagli di giornale e le opere incompiute, sparse ovunque. “Nonostante secondo molti miei coetanei io sia un fallito perché non ho mai comprato una macchina, non ho costruito un immobile e non ho i milioni in banca, nel profondo di me stesso io mi sento realizzato: dopo tanti anni di sacrifici mantengo la mia famiglia e sono riuscito persino ad aprire un mio atelier personale. Di tutto questo, che non si costruisce in un giorno, sono grato a Dio”. Dopo aver recuperato cartina, filtro e tabacco da un sacchetto, Bass si rolla la sua meritata sigaretta serale. E, allungandosi per aprire la finestrella sopra alla scrivania, si lascia cullare da un’ultima riflessione: “Non sono mai stato bravo a parlare. Non sono un griot, sono un forgeron. Però ho un messaggio per i potenti della terra, per i futuri presidenti di domani: smettiamola con tutte queste guerre, gli attentati, le crisi. Smettiamola con la costruzione di strumenti di dolore, come le armi di distruzione di massa, e concentriamoci invece sull’arte, la natura e gli esseri umani.”
Foto copertina: Pixbay/ Emer_ Iglesias