di CLARISSA MARACCI
Apsatou Bagaya è oggi una delle fotografe più conosciute in Niger per il suo talento nell’immortalare i molteplici volti del suo popolo. Nata a Zinder da una famiglia poligama, Apsatou viene cresciuta in Benin da una zia. Passa un’infanzia solitaria dove il vuoto lasciato dalla sua famiglia viene ben presto colmato dalla fotografia, di cui farà una ragione di vita. Impara il mestiere facendo foto commerciali in un parco giochi a Cotonou e grazie ad un incontro fortunato si appassiona alla fotografia d’autore. Rientrata in Niger per trovare l’ispirazione decide di sposarsi per far fronte alle pressioni familiari. Così abbandona la fotografia per qualche tempo per dedicarsi alla vita coniugale, ma dopo un periodo di depressione capisce che rinunciare alla fotografia significa rinunciare a sé stessa. Cosi decide di divorziare per continuare quello che per lei non rappresenta solo un mestiere, ma la sua identità. Apsatou oggi viaggia in ogni angolo del suo Paese per immortalarele storie dei tanti popoli e delle culture che abitano questa terra desertica.
Da dove nasce la passione della fotografia nella tua vita?
Per un periodo ho lavorato come contabile in una Ong internazionale in Benin. Era una Ong che faceva produzioni video. Piano piano mi sono unita al team di produzione. Ho iniziato a connettere i cavi, i mixer, trasportare le luci, etc. Dopo poco mi sono iscritta a una scuola di arti visive dove ho conosciuto la fotografia.
Dove hai iniziato a praticare il mestiere?
C’era un parco divertimenti che stava aprendo a Cotonou. Si chiamava “Magic Land”. Ho iniziato a fare le foto ai clienti. Giravo per il parco chiedendo a chiunque “Vuoi fare una foto a tuo figlio?”, quando consegnavo la foto, guardavo i genitori. Se erano felici, era fatta. Nel tempo i clienti conosciuti al parco mi hanno chiamato a far foto a cerimonie, scuole e istituzioni. Così, nel 2010 nacque “Apsath” Photo, la mia impresa.
Quando hai iniziato ad interessarti alla fotografia d’autore?
Nel 2012 ho incontrato il fotografo belga Jean Dominique Bertin. Grazie a lui ho capito che cos’è la fotografia d’autore e che era quello che volevo fare anche io. Dominique mi disse che se davvero era quello che volevo, sarei dovuta tornare a casa mia. «Qui in Benin ti sei affermata, ma è a casa che puoi connetterti al tuo popolo ed è lì che troverai l’ispirazione». Mi sono fidata e sono tornata.
È stato difficile tornare in Niger e far accettare alla tua famiglia la tua professione?
Non è stato facile. Ma con il mio primo viaggio nell’interno del Paese, ho capito che potevo davvero essere utile a persone che non avevano voce. Potevo farle viaggiare attraverso le mie foto. Tuttavia, a livello personale, a 35 anni, il mio non essere ancora sposata è divenuto un problema enorme per mia madre. Così ho pensato che se volevo davvero tornare a esprimermi a casa, dovevo prima fare pace con la mia famiglia. Dopo pochi mesi mi sono sposata. Di colpo mi sono trovata velata, il mio unico lavoro era cucinare. Ho capito che per far funzionare quel matrimonio avrei dovuto rinunciare alla mia identità. Così dopo tre anni la mia decisione è stata definitiva: ho divorziato e sposato la fotografia.
Quali sono le difficoltà per una donna di esercitare questa professione in Niger?
Il Niger è molto difficile perché è un ambiente con tradizioni, costumi, culture che si intrecciano, che pesano, che ti trattengono. Oggi sono molto orgogliosa di fare il mio lavoro. Ho il rispetto della gente e delle istituzioni. È stata dura, ma oggi più che mai mi dico che sono felice per la strada che ho percorso.
Quali sono i tuoi prossimi progetti professionali e personali?
«Al momento sto lavorando molto sulla schiavitù femminile. Mi sono presa del tempo per viaggiare nella zona di Tahuà e incontrare alcune ex-schiave. Ho ascoltato queste donne raccontarmi cosa hanno passato… E ho chiamato questa serie «Surtout Femmes» (Soprattutto donne). Ho pensato di rappresentarle in tutto il loro splendore di donne, non nella loro condizione di schiave. Non andrò mai a riprenderle nella loro miseria. Voglio mostrare il bello, voglio mostrare il bene, voglio che la mia fotografia sia utile e penso che qualsiasi cosa tenda verso l’alto è quello che serve. È l’umanità che resta che mi interessa raccontare