METICCIO. CON YOUSSOU N’DOUR NEL CUORE IL RAP NELLA TESTA

di VALENTINA GERACI

Leuz, musicista attivista che si batte per migliorare la vita della sua comunità, e per il diritto di cercare il proprio feneen. Sempre. 

Quando hai iniziato a lavorare con la musica?

Ho iniziato ufficialmente nel 2004 con le prime tournéss, ma dal ’98 ho iniziato a scrivere e a frequentare l’ambiente hip-hop con altri artisti. Già nel 2007 è stato creato un gruppo chiamato Diwane G. con quattro membri. Nel corso del 2009-10, ho viaggiato un po’ e ho ripreso la mia carriera musicale da solo. L’anno seguente ho partecipato a un concorso hip-hop, arrivando in finale. Dopo il 2012 sono andato in Marocco per scoprire il Paese e perché, alla fine dei miei studi, volevo vedere cosa succedeva altrove. Mi sono concentrato su me stesso e qui ho scritto molto, trainato dalla solitudine, dal lavoro, dalle persone e soprattutto dallo sguardo “esterno”. Quando sono rientrato in Senegal, ho fatto qualche concerto e nel 2015 ho pubblicato il mio primo album. La mia canzone Early in the morning fa parte di questo progetto.

Oltre al Marocco tu sei stato e hai lavorato anche in Francia. Il fatto che tu abbia viaggiato, ti ha permesso di confrontarti con realtà differenti. Come definiresti oggi “l’essere straniero”?

Viviamo in un mondo globalizzato ed è vero che bisogna conservare e valorizzare le nostre identità. Bisogna sapere chi siamo, da dove veniamo, cosa rappresentiamo ma bisogna anche accettare l’altro. Non posso dire di essere l’unica persona, fingendo che l’altro non esista. Questo è davvero un limite. Ogni giorno dico a me stesso che tutti hanno il diritto di cercare la propria felicità e lo sanno, ma nella disciplina e nel rispetto dell’altro. Non è il meticciato dei colori che è importante, ma il meticciato delle mentalità, dei pensieri e delle ideologie. Questa è la cosa più importante ma su cui non riusciamo ancora ad avere successo.

Ti impegni a diffondere questi messaggi anche oltre la musica?

Assolutamente. Siamo artisti impegnati e abbiamo qualcosa da condividere. Siamo qui sul campo e stiamo partecipando attivamente per aiutare le scuole, i giovani e le comunità. Abbiamo avuto la possibilità di viaggiare, studiare e capire cosa sta succedendo altrove. Oggi siamo in grado di fare dei confronti, muovere delle critiche e fare il necessario per lo sviluppo dell’Africa in generale, e personalmente del Senegal e del mio villaggio. Qui faccio attivismo, facciamo i graffiti per spiegare, parliamo nelle scuole, ai concerti e nelle trasmissioni televisive. Facciamo concretamente azioni di sensibilizzazione, festival ed eventi, proiezioni di film e comunichiamo su tematiche importanti quali l’ambiente, la lotta contro la droga e l’immigrazione clandestina. Ne discutiamo perché bisogna ascoltare questi giovani e capire quale è il vero problema. Solo così sarà possibile accompagnarli.

Nello specifico nel tuo villaggio, in cosa sei impegnato?

È un villaggio tradizionale in cui mancano molte infrastrutture. Al momento siamo impegnati con l’ambiente: cerchiamo di fare rimboschimento, piantiamo più di 200 o 300 palme da cocco, ci dedichiamo alla manutenzione e alle pulizie la domenica. Abbiamo la nostra squadra, le nostre attrezzature, cercando di offrire bagni pubblici ma anche graffiti, abbellimenti e arredi vari. Abbiamo anche attività nelle scuole elementari con i bambini, dando loro il materiale necessario. Il mio prossimo obiettivo è quello di avere una “casa della cultura” dove si possa davvero promuovere una formazione specifica. Per il futuro, anche uno studio di musica e altri spettacoli di tanto in tanto. Mi piacerebbe anche investire in agro-ecologia perché ho già fatto una formazione sul tema insieme al mio team organizzando un festival ad hoc e visite gratuite per gli anziani. Intanto spero che, dopo la pandemia, potremo continuare anche con le giornate di proiezione film per sensibilizzare i più piccini, con i tornei di wrestling e con le attività di nuoto.

A proposito della pandemia, come artista come hai risposto a questo virus?

La pandemia ha sicuramente frenato molte cose ma ha anche rafforzato dei legami. Con Silvia Lami, responsabile del Progetto “Migra” per la ong Lvia (che lavora in collaborazione con COSPE) abbiamo lavorato su molti aspetti in questi ultimi mesi: formazione per i giovani nel settore dell’agroecologia, nella gestione dei rifiuti e nella riqualificazione delle formazioni. Poi c’è stata l’idea di “Feneen”. Qui è emersa la necessità di incontrarci, creare reti e raccogliere artisti. Abbiamo così dato vita a una connessione tra un artista senegalese, uno italo-senegalese e un producer italiano in Senegal. La musica e la cultura sono state gli strumenti utilizzati per capirci e per comunicare, sorpassando una lingua in comune che mancava. Grazie al progetto “Migra” è nata questa connessione e il nome della canzone e del documentario che son venuti fuori non potevano che essere “Feneen”, l’altrove. In quei giorni c’era l’Italia che si arricchiva dal Senegal, il Senegal che si arricchiva con l’Italia e c’erano poi Fula e Leuz e, ancora, loro due con Frank a scambiarsi pensieri tra musica, cultura e melodie. È stato fortissimo ed è questo il mondo della musica. Fortunatamente, non ci sono confini. Non si chiede un visto o un passaporto per ascoltare la musica, quindi “Feneen” è l’accettazione dell’altro. Io imparo da te, tu impari da me. “Feneen” è il mondo intero. È la mia comunità, è anche l’essere umano in generale, in modo globale. Non faccio distinzioni tra colori, razze, religioni o etnie ma quando non mi rispetti, ho il diritto di andare altrove. E questo altrove è quando non ti senti a tuo agio dove sei. Il feneen è cercare di trovare qualcos’altro. Cercare di capire gli altri, provare a viaggiare, a fare scambi e connessioni tra culture, colori e religioni, cercando di capirsi e di eliminare del tutto limiti e frontiere.

Tirando un po’ le fila, quale è oggi la missione di Leuz?

La musica non è solo musica, è ricerca. Non si tratta di creare melodie, comporre e mescolare. C’è una lotta. O partecipi o non partecipi. Io non faccio musica per gli altri, per i soldi o per la fama. Lo faccio perché ho una lotta e voglio far parte della storia. Voglio essere ricordato come un artista che difendeva, che parlava e dava voce. In Africa, in Senegal e dove vivo, c’è molto da fare e io cerco di impegnarmi, di stare vicino alla mia comunità, di sensibilizzare, sostenere e dare il mio punto di vista. Mi fa sentire bene nonostante ci siano dei rischi perché sono indipendente. Non ho un’etichetta né uno sponsor. Non ho un produttore, faccio tutto da solo e oggi funziona. Perché, come si dice, la musica è la musica e devi far valere ciò che fai perché nessuno lo farà al posto tuo.

 

Giulia Rosco

FRANK SATIVA
Classe 1985, torinese e producer di lunga esperienza, Frank Sativa ha costruito e affiancato il progetto musicale di Willie Peyote. Nel 2018 si è aggiudicato il Premio Carlo U. Rossi come miglior produttore emergente per l’album “Sindrome di Tôret”. All’interno del progetto MIGRA, Frank Sativa ha collaborato con i rapper Fula e Leuz Diwane G. tra Senegal e Italia. Frutto di questo lavoro è il singolo ”Feneen“, un intreccio tra artisti diversi, nazionalità e lingue differenti che affronta il tema dell’altrove ( feneen in wolof – lingua maggiormente parlata in Senegal), dell’identità e dell’incontro con l’altro in un continuo scambio reciproco.

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