ESTETA. LA PASSIONE CHE MI HA CAMBIATO TUTTA LA VITA

di ROBERTO DE MEO

Bisogna essere pronti a rischiare tutto per poter arrivare a fare quello scatto

Massimo Sestini, 1963, è un grande fotoreporter, famoso oltre che per i suoi scatti anche per la sua capacità di lavorare in situazioni estreme, appeso a un elicottero, sott’acqua, sempre sul posto, sempre sulla notizia, ma sempre con una marcia in più, con un stile fotografico riconoscibile, che è dote soltanto dei più bravi.

Tu come ti definisci professionalmente? Un paparazzo, un fotoreporter, un fotogiornalista?

Un fotografo, uno che racconta le notizie per immagini.

Come hai iniziato questo lavoro?

Per scelta. Me ne sono innamorato al liceo, quando per passione andavo a fotografare i concerti rock che in quegli anni si tenevano a Firenze e in tutta Italia. Ho fatto tre mesi di Scienze Politiche e poi sono entrato a tempo pieno a “La Nazione”, il quotidiano di Firenze, come stampatore di foto. Da lì ho iniziato a lavorare come fotografo di cronaca locale, per due anni ho seguito inchieste come quella sul Mostro di Firenze, ho fotografato l’attentato al Rapido 904 nel dicembre 1984.

Che tipo di evoluzione professionale, ma anche personale, hai fatto?

Agli inizi il mio lavoro era principalmente quello del paparazzo. Un gran divertimento, un lavoro magnifico quando hai 23 o 24 anni. Poi ho iniziato a collaborare con “Epoca” e ho avuto la fortuna di incontrare dei grandi maestri di reportage, come Mauro Galligani o Giorgio Lotti: era quello un periodo d’oro alla rivista e grazie a loro sono cresciuto come fotoreporter. Ma la mia esperienza precedente da paparazzo mi è stata molto utile, perché mi aveva insegnato la caparbietà, la capacità di aspettare, avere pazienza, insistere e non arrendersi mai.

Ti aspettavi di arrivare a questo punto?

Non sono arrivato a nessun punto: non si finisce mai di imparare, se si pensa di “essere arrivati” e si perde la passione, questo diventa un mestiere come un altro. Io invece ho sempre lo stesso amore di prima, a prescindere da chi sia il committente e di quale servizio debba fare.

Tu sei un mix tra un artista, uno stuntman, un corrispondente di guerra. Quali sono le caratteristiche principali che servono per il tuo lavoro?

Proviamo a spiegarlo con alcune parole… La spregiudicatezza. È la dote più importante, questo non è un lavoro razionale, organizzativo, che si possa pianificare, è più simile a un gioco d’azzardo in cui bisogna essere pronti a rischiare tutto per poter arrivare a fare quello scatto. Il distacco. Non bisogna confondere il distacco con il cinismo. Nel momento in cui assisti a una scena drammatica, mettiamo un incidente o un naufragio, tu devi mantenere un distacco sufficiente per poter descrivere bene la scena. Se sei partecipe di un evento non sei in grado di raccontarlo. Come il medico di un’ambulanza che interviene conservando il sangue freddo e non condividendo empaticamente il dolore altrui. Salvo naturalmente mantenere l’aspetto umano, per cui se mi trovo a vedere uno che affoga e non c’è nessuno a salvarlo, chi se ne frega della fotografia, mi tuffo e cerco di aiutarlo. Ho dovuto elaborare questa capacità di essere distaccato, senza avere sensi di colpa. In certi casi ci sono foto che sarebbe giusto non fare, per motivi etici, invece in quel momento bisogna scattare, scattare, bisogna sempre fare tutto il più possibile. In quegli attimi vale solo l’istinto, non la ragione, per cogliere l’essenza della situazione. Il giorno dopo, a sangue freddo, si rielabora e si decide cosa può essere mostrato e cosa non sarà mai fatto vedere. Il rischio. Il rischio c’è, molto, ma non va mai calcolato, sennò non fai il fotogiornalista. I fotografi più bravi hanno un’adrenalina così forte che compensa il rischio che corrono. La velocità. Bisogna essere in grado di rinunciare a ogni cosa per andare all’improvviso da qualche parte, come facevano i vecchi inviati speciali della carta stampata. Bisogna essere disponibili a sacrificare la propria vita privata, a lasciare a mezzo ogni attività personale e partire subito. Bisogna anche sapere come muoversi per arrivare per primi, che per l’attualità è la cosa più importante.

La passione. Quella non può mancare mai, l’amore per questo lavoro è la spinta che ti aiuta a sopportare gli immensi sacrifici a cui ti sottopone. Senza la molla della passione il fotoreporter non si può fare. Il senso estetico. È fondamentale, bisogna imparare a vedere le cose non come le stai vedendo ma come appariranno nello scatto. Bisogna rovesciare la prospettiva delle cose, mostrarle con un taglio diverso che
riesca a trasmettere un’emozione nell’osservatore. Non è sufficiente premere un pulsante di fronte a una scena per trasmettere i contenuti di quella scena. Bisogna che allora nella tua mente già si veda l’immagine composta nella maniera in cui la vedrà chi non c’era.

L’avvento del digitale, allora, è stato di aiuto per la tua professione?

Rispetto a prima quando si scattavano i rullini senza vedere cosa veniva, ora sarà tutto più semplice… Da questo punto di vista sì, il digitale ha portato la possibilità di misurare immediatamente il risultato del lavoro, è anche più duttile e permette di scattare in situazioni molto diverse e più estreme. Però ha anche dato la possibilità a chiunque di scattare una foto e di veicolarla immediatamente. Questo crea un’enorme difficoltà al fotoreporter che non potrà mai battere sul tempo chi era lì e già ha documentato in diretta l’accaduto diffondendolo tramite i social in tutto il mondo. Qui però si distingue il professionista da chi era sul posto per altri motivi. La capacità di entrare nella scena, di produrre un risultato che abbia un valore estetico, di offrire una composizione che sappia trasmettere un messaggio al di là della pura testimonianza del fatto sono caratteristiche che può avere solo un professionista, dettate dalla sua esperienza. Però, ecco, il digitale ci ha messo in concorrenza con tanti “fotoreporter per caso”.

Questo è il senso della foto zenitale, una delle tue cifre espressive, forse quella che ti ha reso più famoso?

Sì, la foto zenitale, in cui lo scatto è perfettamente perpendicolare al soggetto inquadrato, implica uno stravolgimento del punto di vista, riesce a mostrare una prospettiva e dei disegni completamente diversi e inusuali che riescono a colpire l’occhio ed entrare più profondamente nell’animo di chi la osserva. Rappresenta per me un taglio particolare, un modo di esprimermi per combattere anche quell’inflazione di immagini dovute al digitale di cui si parlava prima.

Quale è la foto più importante per la tua carriera professionale?

Quella dei migranti sul barcone, scattata dall’elicottero della fregata Bergamini durante l’operazione “Mare Nostrum” nel 2014. Quella foto, perfettamente zenitale, mi ha portato il premio del World Press Photo nel 2015, è diventata un’icona e ha anche cambiato il corso delle cose per quanto riguarda i migranti. Da quella foto ho sviluppato anche un progetto (“Where are you?) per rintracciare i migranti e ritrarli nella loro nuova vita. L’idea mi è venuta in Svizzera mentre ero a una presentazione del World Press Photo sono stato avvicinato da alcuni migranti che si erano riconosciuti nell’immagine. Allora ho diffuso un appello in rete per ritrovare quante più persone tra coloro che erano a bordo. Alla fine ne ho fotografate una decina, sparse in diversi Paesi d’Europa, che appartenevano a etnie diverse e che rappresentavano tutta quell’umanità stipata sul barcone. Per questo progetto è stato fatto un servizio di “National Geographic” su di me, insomma sono diventato famoso in tutto il mondo.

Quale è la tua foto che più ami?

Quella di Lady Diana in bikini, fatta in Sardegna a Capo di Coda Cavallo nel ferragosto del 1991, dopo giorni di appostamenti. Mi ricorda i miei primi anni da paparazzo, quello scatto mi dette un sacco di notorietà all’estero, perché io – unico al mondo – ero riuscito a fotografarla quando tutti la stavano rincorrendo da una settimana.

E quale è la foto che ti sei pentito di aver pubblicato?

Massimo Sestini

Sempre da ragazzo, quando avevo iniziato a lavorare per “Epoca”, fui mandato a fare un servizio sulle discoteche dell’Adriatico. Un pomeriggio ero davanti a una discoteca chiusa dove era ferma una macchina dei carabinieri. Entro e i carabinieri stavano chiacchierando e bevendo tranquillamente con i gestori della discoteca, con cui erano in confidenza, nulla di male. Convinco uno dei carabinieri a mangiare un grappolo d’uva con la bocca aperta, stile Bacco, e lo fotografo. Poi mando tutto il rullino a “Epoca” che dedica alla foto del carabiniere una doppia pagina. Il carabiniere, per questo, viene trasferito. Ecco, ancora oggi ci ripenso, mi duole la coscienza, sono stato frettoloso e superficiale a mandare quello scatto che ha danneggiato inutilmente la vita di una persona.

All’improvviso il Covid: com’è cambiato il tuo lavoro durante la pandemia?

Intanto io ho avuto la fortuna di essere tra quelli che potevano andare fuori per lavoro e quindi ho sviluppato due progetti. Ho trascorso una settimana all’ospedale di Santa Maria Nuova, a Firenze, e ho fatto un servizio sugli infermieri, per documentare il loro eroismo. Per eroismo intendo il senso di abnegazione, la fatica, il rischio grandissimo che stavano correndo a fronte di un riconoscimento economico certamente non adeguato alla situazione. L’altro progetto è stato quello di fotografare le piazze principali d’Italia dall’alto, dove ci sono le statue dei grandi personaggi del nostro Paese: ho messo la fotocamera dietro la testa all’altezza degli occhi della statua e ho fotografato la piazza completamente vuota, vista con lo “sguardo sconcertato” dell’illustre monumento. Durante il lockdown questo servizio è stato pubblicato su “Chi” e ha mostrato l’altra faccia della pandemia, il contrasto tra il pieno dentro gli ospedali il vuoto all’esterno.

Dopo il Covid è cambiato qualcosa nel tuo lavoro?

Intanto non parlerei ancora di dopo Covid, siamo semmai in una fase di rinascita, ma non ne siamo ancora fuori. Per me il momento di discrimine, lo “scollinamento” dalla fase più dura della pandemia, è stato segnato da un lavoro che ho realizzato per conto dell’Istituto degli Innocenti, a Firenze, sul rientro a scuola dei bambini della materna. Quel lavoro mi ha aperto un mondo meraviglioso, fatto di genuinità e sincerità: di fronte all’obiettivo i bambini sono sempre gli stessi, non si pongono il problema di come risulteranno nello scatto, mantengono una naturalezza che gli adulti hanno perduto

 

Foto in copertina: Massimo Sestini

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