di SARA PERNIOLA, con la collaborazione di JONATHAN FERRAMOLA
Capelli corti, un dolcevita nero e uno sguardo sereno: è così che si presenta alla nostra intervista Afsaneh Salari, la giovanissima regista iraniana del film The Silhouettes (Iran, 2020, 79’), vincitore di diversi premi cinematografici, tra cui il “Premio Lo Porto” al “Terra di Tutti Film Festival”, edizione 2021. La delicata e modesta vita della famiglia afghana Safari rappresentata nel film cela, in realtà, una delle tante tragedie che questo popolo è costretto a vivere: l’immigrazione, da sempre fonte di inquietudine. Sensazione, quest’ultima, che la regista conosce bene,
essendo stata costretta a lasciare l’Iran per costruirsi un futuro migliore a Parigi.
Afsaneh, raccontaci il film e quale è stata la sua genesi.
Le riprese del film sono iniziate nel 2015, seppur ci stessi già pensando da un paio di anni. Nel 2011, infatti, sono arrivata in Francia, dove ho iniziato a comprendere che cosa significhi vivere come migrante. La solitudine, l’essere ignorato per il colore diverso della pelle o per la lingua, le emozioni contrastanti: ho provato tutto questo e, come me, anche i personaggi della mia storia. Per questo motivo ho cercato, in The Silhouettes, di raccontare come ci si sente su un terreno instabile, molto spesso crudele e privo di appartenenza. Cosa si prova nell’essere guardati non nel profondo, come persone, ma solo concentrandosi sul contesto e sui “contorni”.
Che sensazioni hai provato mentre lo giravi, sia come regista che come persona?
Quando sei anche regista hai un sacco di domande, non puoi programmare cosa succederà, ma devi comunque rimanere concentrato e terminare il tuo lavoro. È stato difficile trovare un equilibrio fra i due ruoli: mi chiedevo come portare avanti la storia pur essendo mossa da un turbinio di sentimenti. Mi sono sentita profondamente accolta dalla famiglia di cui disegno un ritratto nel film: mi hanno sempre trattata con grande cura e come se fossi un ospite ben accetto. Durante questa esperienza ho vissuto alcuni dei momenti più belli della mia carriera. Tutte le emozioni che ho voluto creare e immortalare sono nate senza sforzo, spontaneamente, e ho potuto restituirle agli spettatori grazie a questa meravigliosa famiglia. Ho cercato di rappresentare l’umanità in alcune delle sue forme, poiché diventiamo razzisti quando la dimentichiamo o non vogliamo vederla. Ho vissuto il dolore del distacco del figlio primogenito dalla famiglia come se lo stessi vivendo anche io; ho guardato ciò che accadeva ad ogni componente familiare con lo stesso trasporto che avrei sentito nell’osservare le stesse cose capitare ai miei amici; mi sono sentita Taghi nel suo provare con coraggio a definire la propria identità fuori dalle mura di prote
zione della famiglia, combattendo sempre le discriminazioni che violano i diritti.
Come questo popolo, di cui conosci sensibilità e cultura, ha vissuto la pandemia in questo determinato momento storico?
Questo è un Paese senza pace, complesso e con una guerra in corso. Il Covid ha peggiorato ancora di più questa situazione, nonché una condizione economica davvero preoccupante. L’Iran, poi, non vuole ulteriori rifugiati, ma l’intensificarsi delle violenze spinge inevitabilmente gli afghani a riparare nella Repubblica islamica dell’Iran. La pandemia ha, dunque, aggravato una condizione già abbastanza precaria anche in questo senso. Il territorio è stato messo in ginocchio dal virus, che ha travolto il suo sistema sanitario, proprio nel momento in cui il Paese è terribilmente scosso dal conflitto. Chi può scappa, ma intanto moltissime persone afghane sono state costrette a tornare all’interno dei loro confini, poiché rifiutati da Europa, Iran e Pakistan.
A quali cambiamenti, a causa della pandemia, si è dovuta approcciare la tua professione e come è cambiato il rapporto tra cinema e pubblico?
Non è stato facile accettare che il film, dopo essere stato girato, non sarebbe stato proiettato nelle sale cinematografiche con degli spettatori con cui poter avere un contatto diretto, ma solamente su schermi privati. Il cinema è fatto anche di voce, dialogo e di fisicità, si discute e si riflette insieme. Ho perso, così, anche l’occasione di incontri e network importanti. Ho però poi anche capito che per me tutto ciò che contava era poter diffondere il film. Quando sono riuscita a farlo vedere in Iran le persone ne sono state profondamente entusiaste e lo hanno visto in moltissimi. Ho ricevuto, infatti, tantissimi messaggi e email da persone di ogni tipo. Questo mi ha resa felice poiché mi ha fatto capire di essere riuscita a centrare uno degli obiettivi del mio progetto: l’estensione della democrazia per la circolazione del film, destinato a essere visto da tutti e non solo da un pubblico elitario, già abituato ad un certo tipo di festival e di visione. Se la situazione dovesse persistere, spero, in un futuro, che possa esserci una sorta di forma ibrida tale da tenere conto sia della diffusione democratica dei film che della necessità del contatto diretto, seguendo proprio il filone strutturale del genere “festival”.
Come stai cercando di migliorare la realtà professionale che ti rappresenta e a quali progetti stai lavorando adesso?
Lo scorso anno, sempre in Iran, ho girato un altro film. Io provengo da un terra in cui il cinema ha una connotazione fortemente eurocentrica e per me è molto importante contribuire a cambiare questo paradigma. Tornando in Francia, dunque, ho la possibilità di trovare strumenti e canali per poterlo fare e raccontare storie. In questo momento sto producendo due film, che è quello che mi interessa maggiormente, piuttosto che dirigere. Io sono giovane, la compagnia è giovane, e sono fiduciosa che riusciremo a portare avanti dei bei progetti, creando della reale e pura connessione che solo il cinema è in grado di donare.