NON VIOLENTA. LE DONNE, I DETENUTI, LA LEGGE, I DIRITTI. ECCO LA VITA DI LEMA

LEMA NAZEEH

di Anna Meli

“Vorrei vivere in uno stato libero, vorrei essere libera di muovermi

Seduta a gambe incrociate sul letto della sua camera con un raggio di luce che le illumina il volto, un sorriso aperto, qualche poster alle spalle, sembra ancora più giovane. Classe 1987, una laurea in Diritto Penale Internazionale e diverse specializzazioni alla spalle Lema Nazeeh, ha una storia umana e professionale già lunga e densa come traspare dal suo sguardo intenso, fiero. Madre libanese, padre palestinese, Lema nasce e passa i suoi primi anni di vita in Tunisia, dove i genitori, membri dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) si sono rifugiati fino al 1996, quando la famiglia ritorna in Palestina con le 3 figlie. Attualmente vicepresidente del Comitato di coordinamento della lotta popolare (Pscc), che opera nei territori palestinesi occupati, Lema è un’avvocata e attivista impegnata nella resistenza popolare non violenta all’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Specializzata in diritti dei detenuti, e nei contenziosi relativi al diritto alla terra, Lema vive costantemente minacciata dalle autorità israeliane. È stata arrestata quattro volte, l’ultima nel 2015 durante una protesta pacifica contro il piano israeliano di confiscare le terre della tribù beduina al-Jahalin a est di Gerusalemme. L’esercito israeliano ha circondato e demolito con i bulldozer il villaggio di tende “Jerusalem Gate” installato dai manifestanti palestinesi, costringendo le persone ad allontanarsi e picchiando alcune di loro, tra cui Lema.

Lema appartiene alla generazione della Seconda Intifada. Anche la casa dove è cresciuta con i genitori a Ramallah è stata distrutta e il ricordo di quegli anni duri, il coprifuoco, i tank per le strade rimangono ricordi indelebili nella sua memoria. “All’epoca ero adolescente, ero giovane, andavo ancora a scuola ma per me è stato un periodo molto duro. Molti dei miei amici e familiari, o dei vicini sono morti o erano in prigione. Era davvero difficile sentire tutti i giorni il rumore degli aerei sopra di noi e le bombe, i soldati che facevo incursione nella casa ogni notte.”

Quando ha deciso di diventare avvocata?

Fondamentalmente, la Seconda Intifada è stata la ragione principale dell’inizio della mia carriera da avvocata. È stato un periodo di lotte dure da parte dei palestinesi, ma non abbiamo guadagnato molto con l’approccio militare e la resistenza armata. Ho sempre pensato di avere il dono della “compassione”, ma ero arrabbiata e frustrata dalle ingiustizie che vedevo e vivevo. Ho quindi deciso di iniziare a studiare legge e questa scelta è stata rafforzata da un episodio.

Quale?

Una mia collega all’università mi ha detto che c’erano delle manifestazioni in un villaggio vicino a Ramallah chiamato Bil’in. Non conoscevo quel villaggio ma mi ha incuriosito perché mi hanno parlato per la prima volta di una manifestazione non violenta. Sono andata in questo villaggio ed è stato stranamente fantastico. Ne sono rimasta scioccata. Le manifestazioni della Seconda Intifada erano caratterizzate dal lancio di pietre, c’era violenza, morti, feriti. Quando sono arrivata a Bil’in ho visto solo colori, una manifestazione colorata che si svolgeva come un festival. Le persone si erano dipinte di blu come il film di Avatar. Ho adorato questo tipo di manifestazione che mi ha fatto pensare che noi palestinesi, meritiamo gioia di vivere perché la Palestina non muoia. Voglio sentirmi viva. In quel momento ho deciso di unirmi alla lotta non violenta e di essere un membro attivo della resistenza non violenta di molti villaggi, questo è stato il punto di partenza.

Ritieni che il fatto di essere donna abbia reso ancora più difficile il tuo percorso?

Sento sempre di essere fortunata perché per le donne che vogliono essere coinvolte nella politica e avere successo nella vita, non è facile. Anche nella resistenza c’è un mondo patriarcale, come ovunque. Come donna ho dovuto confrontarmi con un doppio modo di resistere purtroppo. Quindi, ovviamente, ho sacrificato molto del mio tempo, del tempo per la mia famiglia ma non mi pento della mia scelta. Ho fatto tanti sacrifici per lo studio e per l’attivismo, che è un lavoro a tempo pieno. Non ho avuto una vita sentimentale come tutte le adolescenti perché è difficile trovare persone che capiscano le tue scelte e le tue convinzioni. A volte ti senti stanca o mentalmente esausta perché è estenuante affrontare quotidianamente il dolore e i problemi delle persone. Vai a visitare case distrutte e prigioni, ma dico sempre che è importante trovare l’equilibrio tra lavoro e vita personale.

Cosa ti è mancato di più nel tuo periodo da adolescente o studente?

Mi è sempre piaciuto ballare e questo mi manca molto. Mi manca uscire con gli amici ma ho anche trovato altre gioie nel fare altre cose. Ad esempio mi piace viaggiare e ho avuto occasione per il master di venire in Italia. Mi è molto piaciuto passare quel periodo in Italia e sento che viaggiare, esplorare, aprire la mia mente fa parte del mio carattere. Vorrei vivere in uno stato libero e vorrei essere libera di muovermi.

Il 4 aprile la commissione elettorale palestinese aveva approvato la partecipazione di 36 liste per le elezioni legislative previste il 22 maggio. Le presidenziali invece erano previste per il 31 luglio con il tentativo di riconciliazione tra i due principali movimenti palestinesi Al Fatah e Hamas. Ma ai primi di maggio il presidente dell’l’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, le ha rimandate a data da destinarsi. Come giudichi la partecipazione delle donne alle elezioni così come era prevista ad aprile?

Non sarò diplomatica perché se leggi l’elenco dei candidati nelle 36 liste vedi che nei primi 5 nomi di ciascuna lista non c’è neppure una donna. Solo nella lista Hurriyeh (Libertà) al secondo posto c’è la moglie di Marwan Barghouti e un’altra lista dove abbiamo una leader donna, ma se vediamo tutte le altre non ci sono candidate donne. Il presidente Abbas ha sostenuto una legge per aumentare la quota di donne in parlamento dal 25% al 35%. È un fatto positivo per il contesto palestinese anche se si tratta sempre di discutere di quote ed avrei molto da dire su quella norma. In generale c’è molto da essere deluse. Non possiamo non vedere che non ci sono giovani né donne nei primi nomi delle liste presentate.

 E se tu fossi eletta quali sarebbero le prime 2-3 azioni che promuoveresti?

La prima cosa su cui mi impegnerei sarebbe sicuramente la lotta alla corruzione. Lo so, rischia di essere un cliché, perché molte persone lo dicono, ma per me, combattere la corruzione e attribuire le varie responsabilità anche per tutte le violazioni legate alla corruzione è un punto fondamentale. La seconda cosa ovviamente si lega al mio attivismo. Ho avuto modo di vedere molto di ciò che accade in Palestina, grazie al mio coinvolgimento nei comitati di coordinamento della lotta popolare. Ho incontrato molte persone, sono andata e mi sono immersa nella vita di tutte le comunità vulnerabili della cosiddetta Area C (si tratta di più del 60% della Cisgiordania, sotto controllo israeliano in cui vivono circa 300.000 sotto legge militare ndr). Mi concentrerei quindi sulla resilienza di queste persone e metterei tutti i miei sforzi al loro servizio, perché la loro resilienza salverà la terra, salverà la Palestina. E, naturalmente, abbiamo parlato della rappresentanza delle donne e di essere al potere in tutte le istituzioni palestinesi ufficiali o non ufficiali. Questa è e sarà sempre la mia battaglia per difendere i diritti delle donne.

Che cosa significa per te l’equità di genere?

Anche se tutte le istituzioni dichiarano di voler raggiungere l’equità di genere, la maggior parte di loro, comprese le università, le scuole, i ministeri e anche tutte le Ong, non la perseguono veramente. In tutte queste organizzazioni vedi che la maggioranza dei dipendenti sono donne, ma le persone al potere e quelle che prendono le decisioni sono uomini. Lo vedo anche come avvocata: se vai in tribunale la maggior parte sono donne e sono molto più degli avvocati uomini, ma se vai al consiglio forense vedrai solo due donne di fronte a tutti i consiglieri uomini. Non vedo sinceramente parità di genere.

Cosa diresti allora ad una giovane ragazza che abita in quelle comunità vulnerabili di cui ci hai parlato per motivarla a continuare gli studi a impegnarsi come hai fatto tu?

Sai, rimango sempre molto impressionata quando vado in queste comunità perché in Palestina, ho trovato molte più ragazze che studiano e vanno a scuola più dei ragazzi anche nell’area C e B (area a giurisdizione mista, dove gli affari civili sono gestiti dall’Autorità Palestinese, ma sotto il controllo militare israeliano ndr) anche tra le persone costrette a vivere nelle caverne, come nell’area a Sud di Hebron. Io dico sempre loro di studiare perché questo è il modo migliore di difendersi come esseri umani, di difendersi come donne e di difendersi come palestinesi. Abbiamo bisogno di essere istruite, perché le donne hanno bisogno della loro voce più di ogni altra cosa per alzarla e dire quali sono le loro ambizioni e cosa vogliono nella vita. Dobbiamo sempre impegnarci per la nostra istruzione/educazione e come professioniste, perché gli uomini hanno paura di una donna che sa molto e le donne di solito sanno molto e questo è solo il modo per essere più forti. Questo è molto importante perché spesso all’uomo basta studiare solo le basi, non eccellere, nonostante ciò ottengono posti migliori nelle professioni, nella società e nelle istituzioni. Mentre le donne si conquistano spazi solo se “eccellenti” o se incoraggiate e sostenute. Io lo faccio e lo farò.

Pensi che far parte o essere sostenute da un movimento internazionale di donne possa servire alla causa delle donne palestinesi?

Di sicuro credo che l’unità sia una buona cosa. Unità, norme e lotta. Dobbiamo essere tutte consapevoli di dover ancora promuovere tante norme e anche lavorare sul tema della diversità per comprendere a fondo come avere una mentalità aperta in ogni situazione e contesto. Ma una cosa è certa: la lotta dovrebbe essere unitaria. Sento che dovremo batterci per ogni storia di un’altra donna che ha una vita difficile o vive una situazione difficile e tante sfide. Per questo credo che dovremmo usare tutti i social media e tutti gli strumenti possibili per sostenere i nostri messaggi comuni. La lotta delle donne è ovunque, in ogni Paese, dal più progressista al meno sviluppato. È sempre la stessa lotta.

DALLA PARTE DEI DIRITTI

COSPE è presente nel Territorio Palestinese Occupato sin dal 1995, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, attraverso programmi e progetti mirati a promuovere i diritti umani e le libertà fondamentali e sostenendo in primo
luogo i giovani e le donne, che hanno un ruolo di primaria importanza per il futuro della società palestinese.
Infatti, COSPE porta avanti da diversi anni partenariati strategici nel settore della promozione della partecipazione civile e politica delle donne e delle donne con disabilità, con percorsi di empowerment sociale ed economico che partono da loro stesse. Lavoriamo insieme a organizzazioni femministe della società civile palestinese nell’affermazione di una società basata sul rispetto dei diritti, e nella protezione delle donne e donne con disabilità esposte a trauma o a violenza di genere. Negli anni, abbiamo attivato e sostenuto servizi di supporto psico-sociale, centri di ascolto, percorsi anti-violenza e sensibilizzazione pubblica su questi temi sia nella Striscia di Gaza che in Cisgiordania. Lavoriamo inoltre per il rafforzamento della popolazione palestinese in percorsi di resilienza comunitaria e valorizzazione del territorio, come strumenti di risposta alla crescente occupazione militare e colonizzazione civile imposta dallo stato di Israele, nel rispetto dei principi dell’economia sociale e solidale, del lavoro cooperativo, del commercio equo e solidale. Questo, affiancato alla protezione e al sostegno legale per la popolazione palestinese, così come alla documentazione di violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale nel Territorio Palestinese Occupato.
COSPE aderisce e promuove reti di cooperazione con realtà palestinesi, israeliane e internazionali che condividono gli obiettivi del pieno riconoscimento dei diritti umani per i palestinesi, del rispetto delle norme internazionali e della fine dell’occupazione militare e civile della Palestina, come requisiti fondamentali per una giusta pace tra i due popoli.

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