Keiko: “inseguire l’arcobaleno”

In Bolivia le leggi non bastano a garantire dignità e diritti alle persone LGBTQI, ma l’attivismo è molto forte

Keiko Moxitania Cortez Vasquez è una donna trans boliviana di 36 anni che, con questo nome almodovariano conquistato nel 2016 (grazie alla legge 807 che in Bolivia riconosce legalmente l’identità di genere ndr), ha già attraversato tutte le intemperie che la sua condizione di donna trans le ha imposto in un paese molto conservatore. In più Keiko, proviene da Trinidad capitale del Dipartimento amazzonico del Beni, fino a che non è arrivata a La Paz non ha potuto essere apertamente “la donna che ho sempre voluto essere”. Sì perché le idee lei ce l’ha sempre avute chiare, ma ha dovuto aspettare tempo e luogo per fare coming out e per diventare l’attivista che è oggi. L’abbiamo sentita ad aprile per capire come le persone Lgbtqi vivessero l’emergenza Covid-19. 

In Bolivia dal 2009 esiste la legge 45 che contrasta le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere, ma com’è la realtà per una persona Lgbtqi? 

In Bolivia esistono effettivamente leggi e normative che tentano di impedire le discriminazioni, ma, pur essendo questo positivo, purtroppo non cambiano la mentalità delle persone e non cambiano una realtà che è abbastanza crudele con noi: le aggressioni fisiche, quelle psicologiche e anche crimini di odio contro chi esprime liberamente il proprio orientamento sessuale sono all’ordine del giorno. Il contesto attuale poi è penoso per molti di noi: la pandemia da un lato e le politiche di questo governo transitorio che impone la religione cattolica come forma di vivere e di governare, sono deleterie. 

 

Com’è nata Keiko e la sua coscienza politica di attivista? 

Ho iniziato il mio attivismo con un piccolo gruppo di amiche in un’organizzazione che si riuniva in case private soltanto per distribuire preservativi e dare informazioni di prevenzione e lotta all’Aids. Ancora, in quel momento, vivevo “nell’armadio” come si dice qui. Una volta preso il diploma me ne sono andata subito a La Paz e qui ho seguito “le coordinate dell’arcobaleno”: ho conosciuto molti leader Lgbtqi che sono stati fondamentali perché io continuassi questo percorso senza vergogna. Sono bastati 5 anni a La Paz per farmi tornare al mio paesello pronta a camminare a testa alta. Da quel momento non ho mai smesso la lotta, con l’aiuto della mia famiglia, che ha capito, e l’appoggio dei leader di tutto il paese. Oggi sono un’attivista. C’è stato un tempo in cui mi sono anche prostituita, non lo nego e non mi vergogno, anzi da quell’esperienza ho imparato molte cose e posso capire meglio le sofferenze delle persone Lgbtqi che sono costrette a guadagnarsi così la vita, e in molti casi a perderla. Nel 2013 ho deciso di entrare all’Università e adesso sto frequentando l’ultimo anno della facoltà di Scienze della comunicazione sociale all’Università Autonoma del Beni dove sono stata anche rappresentante degli studenti. Sono inoltre fondatrice del Movimento di donne transfemministe della Bolivia. Adesso io sono questa. 

 

Abbiamo visto che con l’emergenza Covid-19 le persone Lgbtqi in tutto il mondo stanno soffrendo molto perché sono accusate di essere “untori” o causa della punizione divina che sarebbe la pandemia. Che succede in Bolivia? 

È davvero ripugnante ascoltare e leggere queste cose, però succede anche qui: sono persone ignoranti o fondamentalisti di qualche religione che tendono a credere a queste barbarie e a generare più discriminazione, rifiuto e odio di quello che già dobbiamo subire. 

Come è cambiata la sua vita con l’emergenza Covid-19? 

Questa pandemia ha cambiato la mia vita perché mi ha separato da molte persone care, dal lavoro, dallo studio e dagli amici, ma sono sicura che molte persone Lgbtqi sono state “separate” anche da molti dei diritti umani: la vita, la salute, la famiglia, il cibo. 

di Pamela Cioni

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