— Dal Niger per l’Europa partono solo i nigerini. In fuga dal clima impazzito
È un lunedì sera di fine luglio. Pickup Toyota carichi di passeggeri sfrecciano alla periferia di Agadez, nel cuore del Niger. Circondate da bambini che giocano, le abitazioni si diradano, lasciando spazio al padrone incontrastato di questo pezzo di Africa: il Sahara, o come lo chiamano i tuareg, il Tenèrè.
I fari dei veicoli, in arrivo da diverse direzioni, illuminano piste di terra battuta, cani randagi in fuga, radi arbusti di acacia. Finito l’asfalto, alle porte della città iniziano centinaia di migliaia di chilometri di percorsi tracciati nella sabbia, in uno dei luoghi meno ospitali del mondo. Dall’altra parte del viaggio, Libia e Algeria. Per qualcuno, il Mediterraneo e la speranza di raggiungere l’Europa.
L’appuntamento, come ogni lunedì sera, è alla ‘barrière’, il posto di polizia a est della città. Da qui parte la pista per l’oasi di Dirkou e, più oltre, per il sud libico. Decine di pickup si incolonnano disordinatamente.
Mahamat Tchadi e altri uomini, con un cartellino identificativo al collo, si affacciano ai finestrini delle auto per controllare che tutti abbiano pagato la tassa di transito al sindacato dei trasportatori.
Un quarantenne robusto, Tchadi, ha trasportato migranti per oltre dieci anni, prima di finire in carcere e vedersi confiscato un pickup. Tutti i suoi collaboratori hanno esperienze simili e, in una bizzarra inversione di ruoli, sono passati da criminali a controllori, organizzandosi in un sindacato riconosciuto dalle autorità.
“Vedi -dice indicando i passeggeri, stipati a decine nei cassoni delle macchine- qui sono tutti nigerini, gli stranieri non passano più”. Da quando, nel 2015, il Niger ha criminalizzato il trasporto di migranti, arrestando centinaia tra autisti e facilitatori lungo le piste per il nord, i cittadini di Senegal, Mali, Gambia o Nigeria sono scomparsi dalla vista. Nel 2016, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni aveva contato 300,000 persone in transito per il nord del Niger verso la Libia. Due anni dopo, lungo la stessa rotta erano appena 50,000.
Un misto di misure repressive e di interventi di sviluppo, supportati dall’Unione Europea con l’obiettivo di contenere questi movimenti, ha avuto esiti ambigui. Se la rotta del Niger, che faceva convergere migliaia di persone dirette dall’Africa occidentale in Libia, è diventata meno attrattiva, c’è però chi continua a percorrerla, lungo piste minori, poco controllate dalle autorità, lontane dai checkpoint. Percorsi più lunghi, rischiosi e costosi.
Nel frattempo, ad aumentare è stato il numero di cittadini del Niger. Ogni lunedì, a bordo dei veicoli che si radunano all’uscita di Agadez, lontano dalle luci fioche della città, ci sono solo cittadini di Maradi, Zinder, Tillabéri, Tahoua. Del grande sud nigerino, il granaio del paese. Una striscia semi-arida, in cui vive l’80 per cento della popolazione di una nazione in vertiginosa crescita demografica e dove un settore agricolo vitale fatica ad adattarsi ai cambiamenti climatici.
Per molti non è il primo viaggio in Libia. Un uomo sulla trentina, il volto coperto da un turbante, dice di esserci già stato due volte. Che lavoro si trova, in un paese in guerra? Muratore, giardiniere, domestico, rispondono alcuni viaggiatori. Perché siete partiti? Per la disoccupazione, il raccolto scarso, per dare da mangiare alla famiglia, spiegano. Sbrigate le pratiche alla ‘barrière’, mentre ragazzini sciamano attorno ai pickup per vendere gli ultimi sacchetti di arachidi o datteri, gli autisti danno il via. Ci si muove in gruppo, per tenere lontani i banditi, fino al posto militare di Tourayet. Da qui alle prime luci dell’alba, scortato da jeep dell’esercito, il convoglio viaggerà per due giorni fino a Dirkou, prima sosta sulla rotta libica. Proseguirà poi, senza scorta, fino a Sebha, attraversando posti di blocco di milizie, trafficanti.
“Da un anno a questa parte, i nigerini sono sempre di più”, ci dice Mahamane Alkassoum nei giorni successivi. Molti vengono da zone agricole e fuggono da anni di raccolti insufficienti, con piogge intense ma concentrate in pochi mesi, alternati a lunghi periodi di aridità. Partono, insomma, a causa dei cambiamenti climatici, che contribuiscono a rendere più vulnerabili le popolazioni del Sahel.
Ex autista di migranti, Alkassoum gestisce ora un “ghetto”, ovvero un alloggio temporaneo, per nigerini diretti in Libia. Tra i suoi ospiti, appoggiati ad un muro in terra battuta, Lawal Kaney ci spiega che il suo villaggio, nel dipartimento di Dakoro, si sta svuotando. “C’è sempre meno pioggia, il raccolto non basta e noi giovani partiamo”. Ogni lunedì, sono centinaia, a volte migliaia, i nigerini che lasciano Agadez per la Libia. Il sindacato dei trasportatori ha registrato fino a 60 pickup in transito dalla ‘barrière’ nel giorno del convoglio. Ma tutti, nel settore, sanno che i numeri sono più alti. “Oggi abbiamo 200 autisti attivi, ad Agadez, come prima della criminalizzazione: i passeggeri nigerini hanno sostituito gli stranieri”, dice Alkassoum. Senza dati affidabili e con pochi studi autorevoli alle spalle, è impossibile tracciare relazioni dirette. Il passato recente mostra come le due grandi carestie degli anni ‘70 e dei primi anni ‘80 abbiano causato spostamenti di massa, contribuendo alla nascita del “sogno libico” per milioni di lavoratori dell’Africa occidentale.
Oggi, i dati sono allarmanti. Secondo l’inviato delle Nazioni Unite per il Sahel, l’80 per cento delle terre agricole nella regione è minacciato da un innalzamento delle temperature, più alto dell’1,5 per cento rispetto alla media globale. Una premessa per nuovi conflitti e migrazioni forzate. Scenario che, come riportano le cronache, sembra realizzarsi giorno dopo giorno, in Niger come nei vicini Burkina Faso, Mali e Nigeria. Una ricerca su Senegal e Niger dell’International Center for Local Democracy, un centro di ricerca svedese, ci dice però che imputare al cambiamento climatico le migrazioni dall’Africa occidentale e dal Sahel, è riduttivo. Il mancato accesso ai mercati e lo sfruttamento delle terre e dei piccoli produttori, dovuti ad una scarsa rappresentanza politica delle istanze delle comunità rurali, sono elementi altrettanto centrali.
Mentre nel Sahel il clima cambia rapidamente, le politiche pubbliche e le forme di democrazia locale non stanno dunque al passo, nonostante ci siano progetti sperimentali e intuizioni. Nel suo piccolo, ne ha una anche Mahamane Alkassoum, il ‘passeur’ di nigerini in fuga. Con un’associazione di ex trasportatori di migranti, ha lanciato piccole attività di autosostegno. Sogna di piantare alberi della gomma in un villaggio alle porte di Agadez, “per offrire opportunità ai locali, ombra agli animali da pascolo e fermare la desertificazione”. Gli mancano risorse e conoscenze. Come a molti, che continuano a far viaggiare sogni e aspirazioni attraverso il deserto, attraversando Agadez per raggiungere la Libia in guerra.
di Giacomo Zandonini