— Afropean bridges prova a ricucire tra Africa e Europa dopo il colonialismo
“Che siano discendenti delle vittime dello schiavismo transatlantico o gli attuali migranti, ancora oggi queste persone costituiscono alcuni dei gruppi sociali più poveri e discriminati del mondo. I discendenti africani hanno un accesso scarso all’istruzione di qualità, ai servizi sanitari, alla casa e all’assistenza sociale”. Da questa premessa nel 2015 è nato il “Decennio internazionale per le persone di discendenza africana”, iniziativa delle Nazioni Unite per contrastare ogni forma di discriminazione e disuguaglianza. Al di là delle formule e più o meno retoriche del sistema Onu contro il razzismo, questa iniziativa ha il merito di definire in modo ufficiale uno spazio sociale e culturale che fino a ora pochi avevano considerato fuori dagli Stati Uniti: la discendenza africana. Se in America lo schiavismo ha prodotto il movimento per i diritti civili, una cultura afroamericana molto ben definita e presente nella sfera pubblica, lo stesso non si può dire dell’Europa e degli altri continenti dove i discendenti africani continuano a essere penalizzati e discriminati. Gli europei non hanno vissuto lo schiavismo nelle forme drammatiche del continente americano, anche se hanno ideato e gestito per secoli quel sistema di sfruttamento. Gli europei hanno conosciuto il colonialismo, però, in ogni paese: dal Portogallo, all’Olanda, all’Italia, nessuno escluso. I discendenti africani in Europa hanno una radice comune, hanno un’identità che nasce da quella storia, seppure frammentata e declinata nelle diverse culture, nelle lingue e nelle vicende politiche delle nostre nazioni.
Per questo motivo nei paesi con una storia coloniale più lontana e meglio elaborata, quelli del nord Europa, da anni si parla di una nuova coscienza “afroeuropea”. Ad animarla sono in larga parte attivisti francesi, belgi, olandesi e inglesi, tutti neri o misti, tutti generati in qualche modo dall’occupazione secolare dell’Africa. Sono oggi cittadini a pieno titolo di quei paesi europei che per secoli hanno invaso, devastato e sottomesso i loro nonni e bisnonni nell’intero continente africano.
Non si tratta di un movimento elitario riservato a una minoranza di radicali e intellettuali, perché questa consapevolezza sta arrivando a sfere che nulla hanno a che vedere con l’accademia o la letteratura. E non si tratta nemmeno di un movimento di sola critica e accusa verso l’Europa bianca che ancora domina economicamente buona parte dell’Africa nella più ovvia evoluzione post-coloniale delle relazioni internazionali.
Basti pensare al termine afropean, che questo movimento ha preso in prestito dalla moda e dall’arte per esprimere uno stile ancora prima che una vera e propria cultura, nella forma della consapevolezza e dell’impegno civile. Il tentativo degli afroeuropei o afropeans è soprattutto quello di ritrovare un legame con l’Africa e affermarlo con determinazione, per non subire passivamente l’assimilazione europea. Ma come si definisce un afroeuropeo? Quanto si può andare indietro nelle vicende personali di mescolanza attraverso le generazioni e gli spostamenti delle famiglie spesso spezzate dalle diaspore tra Africa ed Europa? Dal movimento americano gli europei discendenti africani hanno acquisito anche un altro principio, quello della singola goccia di sangue.
La regola del one drop rule è nata durante lo schiavismo per distinguere i bianchi dai neri e da quelli che allora chiamavano mulatti. I padroni bianchi costringevano le schiave nere ad avere figli con loro per moltiplicare la forza lavoro da sfruttare. Era un principio economico tanto elementare quanto osceno. Così nascevano i mulatti, gli schiavi di origine mista classificati come neri. La regola della goccia di sangue è servita a segregare e sottomettere generazioni di uomini e donne negli Stati Uniti d’America. La pratica era diffusa in molti Stati del Sud ed è proseguita per secoli, fino alla fine dello schiavismo. Il movimento per i diritti civili ha ribaltato quel principio facendone un fattore di discriminazione positiva, per includere un numero maggiore di persone di origine africana ed estendere la propria base. Nello stesso modo è considerato un afroeuropeo chi può vantare nonni e bisnonni africani, se con quegli ascendenti sente un legame, a prescindere dalle sfumature della pelle. Con questo spirito nel 2018 a Venezia è nato l’evento “Afropean Bridges” tra le attività dell’International Centre for the Humanities and Social Change dell’Università Ca’ Foscari e in seno alle iniziative ONU sulla discendenza africana. Gli incontri e i workshop hanno approfondito la questione della cultura afroeuropea con scrittori, giornalisti e artisti, così come i rapporti sociali, economici e politici tra Unione Europea e Unione Africana, insieme a imprenditori e rappresentanti delle istituzioni internazionali. Gli obiettivi sono molteplici come articolate sono le relazioni tra i due continenti. Con Afropean Bridges si vuole dare piena cittadinanza all’identità afroeuropea, combattendo ogni forma di discriminazione e razzismo. Allo stesso tempo è fondamentale rilanciare un sistema di cooperazione allo sviluppo libero dalle logiche post-coloniali dello sfruttamento delle risorse, per costruire ponti solidi tra Africa e Europa nel pieno rispetto della parità.
di Vittorio Longhi, Giornalista