di Nicoletta Landi
Quarant’anni sono tanti nella vita di una persona, figuriamoci in quella di un Paese! Cambiano le leggi, le abitudini quotidiane della gente, le convinzioni, gli ideali e gli immaginari e chi più ne ha più ne metta. Le cose che si danno per scontate si evolvono continuamente e, ciclicamente, si palesano questioni che, invece, sembravano fino ad un attimo prima puramente marginali o addirittura impensabili. Il cosiddetto “senso comune” si evolve e muta proprio come cambiano le esistenze – e relative traiettorie – di ciascuno.
Come sono cambiati i modelli di genere dagli anni ‘80 ad oggi? Siamo più o meno rigidi nel considerare ciò che è più o meno appropriato per le persone in base alla loro identità di genere? Ci possiamo considerare finalmente più libere da riferimenti sessisti che rischiano di incanalare, stigmatizzare e assoggettare desideri e possibilità? Oppure, forse, alcune posizioni restano conservatrici, normative, limitanti come un tempo?
Ovviamente è impossibile generalizzare e ciò che è cambiato si mischia con ciò che è rimasto pressoché uguale, tuttavia è necessario riflettere sul sessismo di cui è ancora intrisa l’esperienza di chi vive in Italia oggi.
Innanzitutto, chi subisce maggiormente questo tipo di atteggiamento? In che modo questo s’inscrive nell’esistenza di chi si confronta quotidianamente con processi sociali che – in modo più o meno esplicito – limitano e discriminano le soggettività?
Per “sessismo” possiamo intendere, sinteticamente, quell’insieme di comportamenti, opinioni, politiche e via discorrendo basate sull’idea che alcune persone, principalmente donne o soggettività non riconducibili al maschile bianco eterosessuale cisgender (ovvero una persona per cui il sesso assegnato alla nascita e l’identificazione di genere collimano ndr) vengono considerate inferiori sulla base della loro identità. Colpisce in modo schiacciante le donne giovani e adulte andando a circoscriverne libertà e autodeterminazione facendo loro attraversare quotidianamente un certo numero di più o meno esplicite discriminazioni di genere. Ciò che definiremmo sessista, infatti, influisce su gran parte del vissuto quotidiano delle donne, sia in modo esplicitamente violento sia in modo più benevolo e subdolo.
Uno dei primi contesti in cui questo tipo di sessismo si manifesta, ad esempio, è quello del linguaggio. Secondo molte indagini (cfr. Barometro dell’odio, 2020, a cura di Amnesty International), infatti, le principali vittime dei discorsi d’odio sono proprio le donne. Onlife – ovvero in quella dimensione in cui la vita (life) e il web (online) si sovrappongono – sono proprio loro a subire maggiormente offese, insulti, condivisioni non consensuali di materiale intimo e quelle battute che, almeno apparentemente, sembrano innocue. Un po’ come i commenti sul loro corpo che, non solo sotto forma di becero catcalling, le molestie sessuali (per lo più verbali) che avvengono in strada, abbondano e si moltiplicano all’infinito. Troppo magre o troppo grasse, troppo sexy o troppo poco attente alla cura estetica di sé, troppo poco accudenti se interessate alla carriera, costantemente preda di carichi mentali, familiari e relazionali, mai abbastanza allineate alle aspettative delle reti sociali in cui sono immerse e di cui – costantemente – viene loro richiesto di prendersi cura.
Lo sminuire l’autodeterminazione delle soggettività femminili passa anche dalla costante attenzione posta sulla loro sessualità: fenomeni quali la iper-sessualizzazione o reificazione hanno l’obiettivo di controllare, gestire, depotenziare. Il cosiddetto slut-shaming, ovvero “lo stigma della sgualdrina”, che diventa un atteggiamento sprezzante e controllante verso le donne e la loro sessualità, tra le altre cose, costituisce il perfetto esempio di quanto risulti ancora problematico accogliere e valorizzare la libertà sessuale (in particolare femminile) andando a sottolineare l’importanza, ad esempio, del consenso e della comunicazione nella sessualità. Anche se l’evidenza parla della necessità di migliorare un’educazione sessuo-affettiva e di genere in ambito scolastico e non solo, ancora oggi in Italia questa è scarsamente diffusa e fuori dalle agende politiche. Se non per essere inserita all’interno di polemiche miopi e strumentali che alimentano la postura omertosa rispetto ai temi dell’affettività, della sessualità e della promozione del benessere affettivo e sessuale delle persone più giovani (e non solo).
Inoltre, sebbene qualcosa sia forse cambiato dal secolo scorso, è ancora molto comune assistere a discorsi pubblici e privati volti a ridimensionare, per fornire un altro esempio, i diritti sessuali e riproduttivi delle donne. È oggi messo in discussione il diritto d’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza e – dalle parole delle giovani ragazze con cui mi confronto quotidianamente come formatrice sui temi del benessere in adolescenza – c’è ancora molto da fare.
La generazione di mia madre (i Boomer), la mia (i Millennial) e quella delle persone più giovani (GenZ) si confrontano con stereotipi in parte diversi ma che hanno una radice comune: il fatto che le dinamiche di genere fanno parte di più ampi squilibri di potere che vanno a normare, contenere e indirizzare le condotte dissonanti, autonome, autodeterminate. Incidono, in questo senso, sul potere individuale, sociale e politico delle persone e delle comunità.
Cosa si può fare per contrastare e prevenire questi processi che, a tutti gli effetti, sono da considerarsi discriminatori e depotenzianti le possibilità di ciascuno?
Innanzitutto comprendere che in ciò che definiamo sessismo rientrano sia le condotte più esplicitamente violente e abusanti come il femminicidio, le aggressioni, le molestie o gli insulti ma anche tutti quei discorsi che, ad esempio, deridono, sminuiscono, rendono invisibili le donne o le persone facenti parte della comunità Lgbtqiap+. E proprio perché il sessismo è tentacolare e lede potenzialmente tutte le soggettività, è importante che il suo contrasto sia collettivo e parta da uno slancio ampio e che adotti un approccio intersezionale. Proprio perché in ballo non c’è solo la prevenzione e il contrasto agli stereotipi, ma la tutela della capacità di ciascuno di tracciare liberamente e collettivamente la propria esistenza.
Educazione è prevenzione
COSPE oggi si occupa di prevenire la violenza di genere e il discorso d’odio realizzando e promuovendo progetti educativi destinati ad adolescenti e adulti del contesto quali insegnanti di ogni ordine e grado, famiglie, personale educativo ma anche policy maker e società civile in senso ampio. Promuovere l’equità di genere, infatti, passa anche attraverso la creazione e la diffusione di strumenti educativi che possano contrastare le discriminazioni e allo stesso tempo incrementare la consapevolezza di giovani e adulti relativamente ai temi dell’identità e del benessere relazionale. Tra questi c’è “BEE. Boosting gender Equality in Education” rivolto al personale di coordinamento, supporto ed educativo della fascia 0-6 e “Play4! Strategie innovative di educazione ai media contro il sessismo e la discriminazione” destinato a personale educativo e student3 delle scuole secondarie di primo e secondo grado. Entrambi i progetti investono sulla formazione di giovani e adulti in quanto parte di una più ampia comunità educante andando a promuovere un’educazione inter-generazionale, interattiva e che promuove l’equità di genere.