IUS CIBI: UN NUOVO VOCABOLARIO PER OTTENERE IL DIRITTO AL CIBO

di Roberto De Meo

Andrea Segrè è ideatore e fondatore della campagna “Spreco Zero” e sul tema della lotta allo spreco alimentare e del recupero del cibo invenduto ha impostato tutta la sua attività di accademico (è professore ordinario di Politica agraria internazionale e comparata all’Università di Bologna), ma anche il suo impegno politico e sociale. Nel suo ultimo libro – D(i)ritto al cibo. La mia playlist dallo spreco alla cittadinanza alimentare (Scienza Express Edizioni, 2023) – ha espresso un principio tanto ovvio quanto rivoluzionario, quello dello ius cibi, cioè del diritto di ogni persona a un’alimentazione adeguata, sufficiente, sana, sostenibile e culturalmente accettabile. Lo intervistiamo aprendo il discorso su alcune coppie di parole che Segrè ha inserito nel libro, parole che senza dubbio rappresentano una provocazione, non solo linguistica, ma soprattutto sociale:

  • Eccesso / Accesso: cambiando una sola vocale, in campo alimentare si passa dall’obesità alla malnutrizione, due facce dello stesso problema.
  • Corrotto / Corretto: bisogna denunciare ogni tipo di frode alimentare nei confronti dei consumatori, sia verso coloro che possono disporre di tutti (anche troppi) i mezzi per accedere al cibo, sia verso quanti vivono in regime di insufficienza. Il cibo deve essere corretto, come quantità e come qualità.
  • Alimentare / Elementare: nutrirsi non è solamente questione di alimentazione, ma anche di conoscenza, è necessario promuovere l’educazione al cibo sin dalla scuola primaria.
  • Dietetica / Etica: la nostra società è basata sullo spendere per mangiare (troppo) e poi spendere per dimagrire (troppo), da questo bisogna passare al diritto di tutti a un’alimentazione adeguata.
  • Denaro / Donare: il cibo considerato come business economico porta allo spreco delle eccedenze di mercato che invece attraverso il dono possono diventare un’utile risorsa per colmare le disuguaglianze. Di qui deriva l’ossimoro di “spreco utile”.
  • Abbondanza / Abbastanza: il principio fondamentale per una corretta alimentazione non deve essere la quantità eccessiva, ma la quantità giusta, il vecchio q.b., “quanto basta”, tradizionalmente usato in cucina.
  • Gusto / Giusto: non può esserci gusto nel cibo (come in tutto) se questo non è anche giusto.

Siamo d’accordo che questi termini contrapposti sono “provocatori”, in quanto mostrano sul piano linguistico quanto poco basta per capovolgere una situazione sul piano sociale?

Sì, certo, sono paradossi non linguistici, ma sociali, ambientali, economici. La lingua – cioè la cultura – ci chiama a intervenire, il significato del paradosso è legato all’azione. Bisogna andare verso una società della sufficienza, oltrepassare il limite è negativo perché si vive meglio avendo e usando solo ciò che serve. Mi pongo spesso la domanda: perché andiamo sempre oltre il necessario? È forse parte esclusiva della natura umana? Perché in Natura non si spreca. Penso sia un aspetto legato alla nostra cultura, si vede anche in altri ambiti: se una strada è ingorgata dal traffico si pensa ad allargare la strada, non a promuovere altre forme di mobilità. In questo modo si consumano troppe risorse senza avere il tempo di rigenerarle, generando squilibri e diseguaglianze crescenti.

In questo modo si viene a negare quello che è un diritto fondamentale di tutte le persone, lo ius cibi, appunto. Come è arrivato a mettere a fuoco questo principio?

Il diritto al cibo è presente già nella Dichiarazione universale dei diritti umani approvata dall’Onu nel 1948, quindi 75 anni fa, e ancora non è stato raggiunto come obiettivo, anzi. Secondo la Fao l’insicurezza alimentare è in grande crescita, mentre una parte rilevante della popolazione mondiale è sovralimentata fino all’obesità. L’Onu è importante ma non sempre, anzi molto raramente, riesce ad applicare i principi che sancisce, le decisioni che vengono prese dall’alto non diventano effettive. Quindi, questo è il mio pensiero, partiamo dal basso, riconosciamo il diritto al cibo nelle realtà locali, inseriamolo negli statuti dei Comuni dove forse è più facile metterlo in pratica: il cibo come bene in Comune, non è solo un gioco di parole.

Quale è stato il suo impegno in questo senso?

A Bologna svolgo (a titolo gratuito) l’incarico di consigliere speciale del Sindaco per costruire dal basso una politica alimentare urbana e metropolitana che parta dal riconoscimento dello ius cibi. Abbiamo messo intorno a un tavolo tutti gli stakeholder del settore, dalle organizzazioni agricole, alle società di catering, dalla Gdo al mondo del non profit, per scrivere uno “statuto” che venga discusso e fatto proprio dal Comune. Al primo punto c’è l’obiettivo di recuperare tutto ciò che è in eccesso nella filiera, con un meccanismo circolare di donazione, guardando al tipo di cibo e alla dieta di chi ha bisogno e riceve il cibo.

Alzando invece lo sguardo dal particolare al generale, alla geopolitica del cibo, come vede il futuro, al cui orizzonte c’è l’obiettivo fissato dall’Agenda Onu 2030 di ridurre lo spreco del 50%?

L’Agenda Onu 2030 rappresenta il fallimento degli obiettivi del 2015. Quelli attuali sono 17, irrealizzabili anche a causa degli eventi che sono sopravvenuti, quali la guerra e la pandemia, e verranno sicuramente spostati al 2050. Io ho individuato quattro azioni fondamentali per ripristinare le condizioni basilari di sicurezza alimentare e di sostenibilità agraria: ottimizzare la produzione in relazione a tutti i fattori (suolo, acqua, energia, fertilizzanti, antiparassitari…) e ai prodotti, occupando tutta la superficie agricola utilizzabile con la maggiore biodiversità possibile. Bisogna coltivare più terre e coltivarle meglio; diversificare le fonti di approvvigionamento, bisogna sostituire i prodotti e gli ingredienti; contrastare la perdita di diversità degli alimenti che compongono la nostra dieta. Bisogna tornare alla dieta mediterranea; risparmiare e non sprecare. Bisogna abbattere lo spreco domestico che quantitativamente è il più rilevante (oltre il 60%) e non può essere recuperato a fini solidali.

Ma a livello di semplici cittadini come è possibile ridurre lo spreco?

È proprio questo il punto, dobbiamo acquisire la consapevolezza di quanto sprechiamo e dell’impatto che questo provoca sull’ambiente. Come si può abbattere lo spreco del 50% se non si può quantificare questo spreco e se non vengono indicate delle azioni adeguate? Con questo obiettivo abbiamo realizzato una app che si chiama “Sprecometro” che serve appunto a misurare lo spreco quotidiano che avviene all’interno delle nostre case. Questa app, scaricabile gratuitamente, è uno strumento che fornisce i contenuti per ridurre concretamente lo spreco nelle nostre case: dalla letture delle scadenze all’uso del frigorifero, dalla lista della spesa alla cucina degli avanzi. La app ci quantifica il danno economico e l’impronta ecologica causati dal nostro spreco: solo così si può sperare di raggiungere degli obiettivi quantificabili, il resto è tutta astrazione. Abbiamo già oltre diecimila utenti e gruppi cittadini a Bologna, Bergamo e Napoli.

Per chiudere, quale è il suo sogno?

Il mio sogno è un “eco-mondo”: una società sufficiente, un’economia leggera, un’ecologia intelligente e trasparente, un’eco-scienza che si riappropria del concetto di limite fra esseri umani e natura e della responsabilità individuale e collettiva.
Per raggiungerlo bisogna tendere al “metaconsumo”, termine che significa sia ridurre i consumi a metà che andare oltre i consumi, cambiare la società dei consumi, ripensandoli, trasformandoli, mutandoli. Si può, anzi si deve fare.

 

Transizione ecologica e cura dei beni comuni
Tra le sfide principali di COSPE c’è quella della transizione ecologica e cura dei beni comuni perché i nostri sistemi economici, insieme alle filiere del cibo, dell’energia e dei rifiuti, rispondano a principi di sostenibilità ambientale ed equità sociale. Perché l’acqua, la terra, le foreste, la biodiversità e la salute siano tutelate e sia garantito dovunque e a chiunque il diritto ad accedervi. Concretamente nel 2022 abbiamo lavorato con 22 progetti in 17 paesi, raggiungendo circa 27mila persone e sostenendo 630 organizzazioni locali.

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