di VALENTINA GERACI
Un fenomeno chiamato Fula: dal Senegal alla Calabria in continuo movimento per denunciare e toccare il cuore della gente con l’afro-music.
Oumar Sall, in arte F.U.L.A., è un artista italo-senegalese. Nato in Senegal e cresciuto in Calabria, passa dalla pallavolo alla break dance e con questa all’urban music fin da adolescente. Si innamora della musica grazie a Youssou N’Dour e inizia a scrivere le sue prime rime dopo la perdita del fratello nella traversata verso la Spagna. Si dedica all’attivismo nelle piazze del suo Paese e con i compagni di squadra, interessandosi anche a questioni sociali e ambientali. Oggi è attivo in Senegal e in altri Paesi del continente africano a tutela dell’ambiente e di un’economia circolare, ma sempre con un occhio sulla terra dove è cresciuto, l’Italia.
Sei arrivato in Calabria da bambino, a soli sette mesi, e crescendo ti sei spostato un po’ per l’Italia tra attivismo e sport. Cosa ti ha spinto ad avvicinarti alla musica?
Mi sono approcciato alla musica perché sono cresciuto tra due famiglie, quella senegalese e quella affidataria in Italia, entrambe amanti della musica. Uno dei miei fratelli in Senegal, Malick – che purtroppo ho perso in mare anni fa – era un super fan di Youssou N’Dour, il cantante più conosciuto in Senegal. Quando avevo circa 9-10 anni, mio fratello mi portò a conoscerlo e da allora mi innamorai della sua musica. I miei 13 anni sono l’inizio del mio percorso da artista, anche se allora non ero convinto che questo sarebbe poi diventato il mio lavoro. Ho iniziato a scrivere i primi testi, riprendendo le canzoni di Mondo Marcio e di altri artisti che con l’hip hop facevano tanta denuncia. Sentendone alcuni, mi sono reso conto che nelle loro canzoni c’era qualcosa che chiamava alla mia realtà con tante analogie tra la Calabria e il Senegal. Ho così iniziato a cambiare i nomi delle referenze di Fabri Fibra con i nomi dei miei amici e con le cose che facevamo insieme. A 17 anni sono andato a Piacenza perché giocavo a pallavolo. Non era una mia scelta quanto una tradizione familiare e così, quando ho lasciato, la mia famiglia non ha risposto con molto entusiasmo. Del resto, non era quello che volevo fare. Ho sempre voluto “denunciare” e volevo continuare a scrivere poesie e i miei testi. A modo mio, attraverso musica e parole, potevo spiegare molte cose e potevo arrivare a toccare il cuore della gente in altro modo.
Credi quindi che la musica possa essere una soluzione per sensibilizzare? Ci sono dei rischi?
La musica è sempre stata il mezzo più diretto per comunicare disagi e malesseri interiori e sociali. Ma bisogna parlare bene. Questo è l’unico vincolo. Trovare le parole giuste, i giusti modi e le giuste forme è fondamentale per arrivare all’orecchio delle persone e restarci. Ho scelto la musica perché se lo fai consapevolmente puoi cambiare tanto. Il modo con il quale noi artisti ci occupiamo delle persone e ce ne prendiamo cura è coinvolgente rispetto a certe dinamiche che interessano oggi la nostra società.
A chi ti rivolgi principalmente con i tuoi testi?
Ai consapevoli e a chi si sente cittadino del mondo e cerca di informare. Informare non vuol dire imporsi sul pensiero altrui ma far prendere coscienza alle altre persone. Noi artisti è come se preparassimo il terreno perché alla fine, ovunque tu vada, ci sono sempre gli stessi problemi: la gente si lamenta del governo, in Italia gli africani parlano di razzismo ma anche in Senegal i senegalesi si lamentano del razzismo da parte degli africani del Nord. Ovunque tu ti trovi, fuori dalla tua comfort zone, tu sei straniero. Ci sono tanti preconcetti nella testa delle persone ma per cambiare le cose i concetti si devono prima metabolizzare e bisogna parlarne insieme.
Alla musica accompagni quindi un forte impegno sociale.
Ho sempre avuto l’attivismo nella testa. Ho sempre voluto denunciare e impegnarmi per fare qualcosa di concreto. Già dal 2015, allora in Sardegna, scendevo nelle piazze per fare attivismo. Erano gli anni in cui giocavo a pallavolo e con la squadra abbiamo creato piccoli fondi da mandare a famiglie africane che avevano terreni ma non possibilità di coltivarli. Oggi faccio parte di una Onlus in Svizzera, creata da persone africane che vivono lì. Lavoriamo in più Paesi, precisamente in Etiopia e Uganda (con il riciclaggio della plastica) e in Ghana e Senegal. Io sono il responsabile del progetto Three4Africa in Senegal. Stiamo cercando di creare forme di economia circolare in Paesi che non hanno questa visione. Sto cercando di andare anche in Costa d’Avorio e lavorare con dei terreni anche lì.
Cosa vuol dire essere italo- senegalese in Italia oggi?
Io non mi sento parte di niente. Non sono italiano. Non sono straniero. Sono Oumar Sall. Sono Fula. Tornato dal Senegal mi sarei potuto sentire smarrito tra la gente che in Senegal mi diceva di non sentirmi “tanto senegalese” e quelli che in Italia ripetevano che dopo esser stato in Senegal volevo fare l’africano. Io posso avere mille sfaccettature del mio carattere, milioni di assunti. Puoi rispettarmi per quel che sono e che ti offro. Sono risposte che ho sviluppato in conseguenza alla pressione sociale che chi vive nel limbo deve subire. Non è un’armatura quanto un prendere coscienza di cosa si è nel mondo e da qui inizi a capire che devi dare messaggi concreti. Io mi sto impegnando a farlo con la musica tanto in Senegal quanto in Italia, i problemi del resto sono ovunque. Con il mio singolo “Sabar”, ad esempio, scrivo perché voglio giustizia guardando al Senegal. Per l’Italia, l’altro giorno, stavo invece scrivendo una nuova canzone su Fuscaldo, il paesino della Calabria dove son cresciuto. Ho parlato di situazioni violente, di amici che sono nel traffico della droga o in carcere. Lo faccio con un occhio critico nei confronti di una società che tende a emarginare determinate classi sociali ma anche nei confronti di chi, pur non avendo niente da perdere, sceglie la strada più facile.
Credi che l’integrazione accompagnerà il posizionamento dell’afro-music nel mercato europeo?
Andranno di pari passo ma sono ancora tanti i passi avanti da fare in Italia. Io ho avvicinato al mio mondo tantissime persone anche solo spiegando le mille differenze tra le diverse tipologie della musica afro. Credo che questa inizi già a essere un punto di riferimento per le diaspore che si sento no distanti dai Paesi d’origine. Altri artisti afro-italiani, io e l’azienda nel music business NoOx Worldwide che mi segue siamo i pionieri di un movimento culturale e musicale di integrazione che cresce.
Qualcosa sui tuoi progetti futuri?
Sicuramente lavorare a un mio album e, sempre sullo sfondo della musica, creare uno studio musicale in Senegal per chi non ha la possibilità di lavorare o per i bambini a cui vorrei offrire una possibilità.Mi piacerebbe anche fare qualcosa in Calabria, dove mancano alcuni strumenti. Da tempo penso a un’associazione culturale che si interessi ai temi dell’ambiente, dell’integrazione e del confronto per comprendere il nostro tempo e per valorizzare tanti settori e parecchie realtà dei paesini calabresi come Fuscaldo.
Come artista, quale è stato l’impatto della pandemia sul tuo percorso?
È stato traumatico. Ho scritto poco. Io attingo dalla vita e quindi ho bisogno di vivere e fare esperienze. Nel corso della prima fase ho buttato giù testi che direi son più riflessivi e molto più personali. Mi piace stare in giro per interiorizzare e accumulare quell’energia adatta per scrivere le mie canzoni. In più, credo che con il Covid non ci sia stato nessuno aiuto né tutela per gli artisti stranieri in Italia. Ancora peggio, per chi non ha dietro un management organizzato come il mio, per gli artisti indipendenti e per chi è solito autogestirsi e finanziarsi. Io ho comunque vissuto solo la prima parte in Italia. Poi sono stato in Senegal.
In quei mesi in Senegal ti sei dedicato al progetto MIGRA e al singolo Feneen.
Per me è stato molto interessante. Sapere che una persona come Frank Sativa (il producer) va in Senegal e dice “Ho preso tanti schiaffi in faccia”, mi fa riflettere. Credo in fondo che il risultato della nostra canzone sia proprio la logica conseguenza di tutto il percorso di pensiero e confronto insieme. Abbiamo raccontato e riscoperto la storia coloniale, ma ancora prima la schiavitù e i regni d’Africa, parlando di quanto la colonizzazione araba sia stata forse peggiore di quella occidentale. Il documentario “Feneen” è un riassunto di quel che ci siamo detti per far capire alla persone quanto si omette nel parlare di Africa e quanto non si conosce. Il Progetto “Migra” sta facendo tanto per questo e per mettere insieme tutti i tasselli in uno scambio reciproco e costruttivo in cui esperienze di vita e assunti dell’altro si assorbano, si analizzino e si contestualizzano. La decostruzione tra diverse etnie è alla base di “Feenen” e del progetto “Migra”. Sono super orgoglioso di esser stato parte attiva all’interno del documentario e della canzone.
A proposito della canzone, quale può essere il tuo “Feenen” (Altrove) oggi?
Penso che ognuno di noi è un po’ un puzzle di tutte le esperienze. “Feneen” è la dimensione che non si conosce dell’altro perché siamo unici. “Feneen” è quel qualcosa da accogliere e assorbire. Fare questa canzone con un artista senegalese che ti racconta il suo altrove e con me che racconto il mio punto di vista, ha permesso di trovare il feneen nelle piccole cose, nei piccoli dettagli. Questo progetto mi ha dato la volontà di continuare a cercare il mio feneen, di non aspettare che arrivi ma di muovermi per dare agli altri, per dare il mio, mescolandoci e portandolo in Francia, in Italia e all’estero. È questo quel che voglio fare.
Foto in copertina: Chiara Parodi