CLEMENCIA HERRERA NEMERAYEMA
di PAMELA CIONI
“Voglio realizzare una università itinerante che si sposti nei territori amazzonici”
Huitoto de la ChorreraAmazonas nel territorio indigeno “Predio Putumayo”, è un villaggio nel cuore della foresta amazzonica colombiana. Per arrivarci, negli anni ‘80, quando si colloca una parte di questa storia, ci volevano 20 giorni (20 giorni!) di lancia sul Rio delle Amazzoni da Leticia, capoluogo della regione di Amazonas. All’epoca ci abitavano circa 300 persone, indigeni huitoto, e alcuni religiosi che, dopo la famosa guerra del caucciù, avevano aperto una sorta di collegio (internado) e si preoccupavano di istruire ed evangelizzare gli abitanti.
Tra questi c’era la famiglia di Clemencia Herrera Nemerayema: “Terza di 5 fratelli, sono nata alla fine degli anni ‘60, in questo villaggio sperduto della foresta amazzonica, che, all’epoca, era tutto il mio mondo. Dopo la guerra del caucciù, che ha sterminato migliaia di indigeni utilizzati da compagnie internazionali che si istallavano nella selva per estrarre caucciù dall’albero della gomma tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, fu proprio mio padre a costruire una delle prime case in questo luogo. Ci siamo arrivati come conseguenza del desplazamiento interno (migrazione forzata ndr) dovuto alla guerra”. Da secoli, i popoli indigeni sono costretti a combattere per difendere le ricchezze e le risorse della foresta e contro chi vuole sfruttare terra e manodopera per arricchirsi. All’epoca era il caucciù, oggi sono minerali o petrolio, o più semplicemente è la terra fertile su cui coltivare colture intensive e invasive.
“Noi, della mia generazione, siamo i nipoti della resistenza del territorio, mio padre ne è il figlio, i miei nonni e i mie bisnonni furono le vittime di quella guerra”. Deve essere da questa storia di lotta e resistenza, che viene da lontano, che Clemencia Herrera Nemerrayema, è diventata una delle più note attiviste colombiane sul fronte dei diritti indigeni, della foresta amazzonica e delle donne indigene. Un po’ di dna, ma anche un lungo percorso di consapevolezza e di istruzione che l’ha portata a continuare a studiare fino ad oggi. “Ho cominciato ad andare alle elementari solo intorno ai 10 anni, solo perché i preti e le suore del collegio hanno insistito con i miei. Vedevano una bambina che scorrazzava nella foresta ma non si presentava a scuola. Parlavo solo huitoto, non conoscevo lo spagnolo, e correvo libera e selvaggia nella selva. Grazie ai miei nonni, ho imparato a cacciare, seminare, piantare, usare la medicina tradizionale. Conosco e riconosco tutto il sapere che avevano i miei nonni e ancora lo conservo e lo pratico.
Per me il periodo delle elementari è stato un vero e proprio momento di “Trasformazione” più che di educazione”. Da subito Clemencia racconta infatti di essersi accorta del “rischio” che correva nel collegio: “L’imposizione della religione cattolica (sono stata battezzata e la mia famiglia è molto cattolica) e della nuova lingua, lo spagnolo, rischiava di cancellare le nostre tradizioni e la nostra lingua. Ho visto bambini e bambine maltrattate perché non riuscivano a parlarlo bene. Io sono riuscita a imparare lo spagnolo e a conservare la mia. Perché sono resistente e “ribelle con causa”. Lo ero talmente tanto che alla fine della primaria, il prete non mi dette un vero e proprio diploma, come agli altri, ma mi dette una bibbia e un crocifisso. Come “invito”, diciamo, a mettere da parte la mia anima ribelle. Ma naturalmente non c’è riuscito. È proprio da lì, vedendo i castighi assurdi dati ai bambini che ho iniziato a sviluppare il mio senso di giustizia e anche di leadership”. Un concetto fondamentale nel percorso di vita di Clemencia Herrera, che alla leadership delle donne indigene ha poi dedicato tutta la sua vita. È stata infatti tra le fondatrici della scuola di Formazione Politica e della leadership e Governabilità dell’Amazzonia colombiana all’interno della Organizzazione Nazionale dei popoli indigeni dell’amazzonia colombiana (Opiac), grazie a cui si sono diplomate 250 ragazze, e oggi è tra le promotrici dell’Università dell’Amazzonia.
“È un progetto che porto avanti da tanto e che avevo in qualche modo iniziato con l’Opiac, ma che ora sto seguendo con la Corporazione Culturale Ecologica, Donna, Tessere Saperi”. Clemencia che 25 anni fa ha anche fondato nel suo villaggio un piccolo collegio per ragazzi e ragazze che si chiama “Casa della conoscenza”, oggi parla di una scuola, un’Università che segua il tempo, il ritmo, il calendario dell’Amazzonia. Che si sposti nei territori indigeni, e non costringa i ragazzi e le ragazze che vogliono studiare a spostarsi nelle grandi città rischiando di perdersi, di non avere le risorse per mantenersi e di abbandonare gli studi. “Oggi vivo a Bogotà, ma viaggio spesso nel mio territorio e so quali sono tuttora le difficoltà di chi vive lì. Le cose certo sono molto diverse da quando ero giovane io, ma comunque si tratta di territori impervi, mal collegati dove i giovani non riescono a concepire sogni in grande. Noi dobbiamo loro questa possibilità. Gli attivisti della mia generazione si sono accorti, io per prima, che manca qualcuno a cui lasciare il testimone, dobbiamo coltivare i nuovi attivisti e le nuove attiviste”.
Clemencia ha studiato a Leticia e a Bogotà, sempre grazie alle suore, si è poi formata in un istituto di formazione per donne rurali e, come leader dell’associazione del suo villaggio, ha partecipato in gioventù a una “fondamentale” formazione internazionale sempre in tema di leadership e politica. Oggi sta studiando diritto indigeno e interculturale all’Università del Cauca. Con grande sacrificio. “Mi devo spostare ogni mese per otto giorni nel Cauca, studiare, lavorare e viaggiare al mio villaggio. È tutto complicato, ma sono felice di farlo. Mi serve avere tutti gli strumenti per dialogare alla pari con tutti, anche a livello internazionale. Credo che gli indigeni in Colombia, si meritino maggior rispetto dei loro diritti. Sono sulla carta, nella Costituzione, ma non siamo ancora a niente”. Già, nel 1991, la Colombia, ha scritto e approvato la nuova Costituzione, una delle più avanzate dell’America Latina, proprio perché vi si riconoscono i diritti delle popolazioni indigene, della lingua e alla terra.
Clemencia Hererra, faceva parte allora di una delle associazioni che hanno lavorato alla Costituente, ma oggi è molto delusa: “Tutti i diritti conquistati sono stati frutto di lotta dei popoli indigeni e le lotte dei leader coraggiosi. A partire dai 26 articoli che compongono la Costituzione. Nessuno ci ha regalato niente… Oggi ci sono molte persone al Governo, che non dovrebbero stare in politica. Che non credono nei settori sociali organizzati, nella società civile e nei diritti dei popoli indigeni”. Ma che cosa significa essere attiviste in Colombia? “Essere leader è come auto condannarsi, significa attirarsi minacce e rischi estremi per noi e le nostre famiglie. Significa esporsi per dire cosa c’è che non va. Ad esempio oggi è il processo di pace che dobbiamo contestare (A Cuba nel 2016 è stato firmato uno storico accordo di pace tra le Farc -Forze armate rivoluzionarie della Colombia- per porre fine a una sanguinosa guerra civile che andava avanti da più di 60 anni. L’accordo prevedeva anche ricollocamento degli ex combattenti ndr).
Il processo doveva prevedere infatti anche una riconversione delle attività per i contadini che coltivano coca ma si è arrestato. Le persone devono mangiare e tornano a fare quello che facevano prima. Oppure svendono i terreni alla multinazionali abbagliati da promesse di soldi e lavoro, per poi rimanere delusi e più poveri di prima. Per tutto questo occorre portare istruzione e strumenti perché tutti possano difendersi e difendere le ricchezze della nostra terra, la bio diversità, l’ambiente e trovare forme alternative di reddito”. Su questo fronte Clemencia è particolarmente attiva, la fonte di reddito serve soprattutto alle donne: “La voce delle donne è fondamentale. Mi sono trovata a difendere le donne, quando non sapevo neppure che esistessero “i diritti delle donne”.
Io sono stata fortunata, la mia famiglia non mi ha imposto niente, non mi ha fatto sposare giovane, non ho subito abusi o molestie. Ma queste cose sono frequenti nelle comunità, perché sono società patriarcali. Proprio perché io non ho subito niente di tutto questo mi sento particolarmente titolata a difendere i diritti di tutte. Lotto soprattutto per la loro istruzione, perché ho visto sulla mia pelle quanto sia importante, e per la loro indipendenza economica. La mia associazione accompagna molte donne, soprattutto le donne rurali e vulnerabili che si trovano nelle periferie di Bogotà e che sono state vittime del conflitto (guerra civile, ndr) e si trovano in condizioni di desplazamiento, a studiare e lavorare.
Oggi sto tentando di realizzare proprio a Bogotà, un ristorante e un centro di arte e artigianato indigeno, uno spazio di disegno di vestiti e, a breve, perché ci siamo fermati con il covid, una gelateria con la frutta proveniente dai territori, oltre a un negozio agro-ecologico con i prodotti amazzonici. E sono già molte oggi le donne che hanno iniziato con noi un percorso e sono uscite arricchite, rafforzate, capaci di parlare e di difendersi. Sono arrivate che non sapevano né leggere né scrivere e oggi sono insegnanti nei loro villaggi. Perché la storia si ripete a volte anche in senso positivo”. Per tutto questo lavoro con le donne indigene, nei territori amazzonici e per la sua voce critica e forte, Clemencia Herrera è stata premiata nel 2019 con il prestigioso premio “Bartolomè de Las Casas”, il dovuto riconoscimento per un impegno, che in fondo va avanti da quando aveva 10 anni e si definiva, come oggi, a ragione, ribelle con causa.
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