PUNTUALE. UNA GIURISTA ALLA “BOUTIQUES DE DROITS”

AMY SAKHO

di ANNA MELI

“Diventare avvocata per me significava sconfiggere tutte le ingiustizie”

Sono le quattro del pomeriggio e la ventola gira nell’ufficio di Dakar dell’Associazione delle “Donne Giuriste del Senegal” (Ajs). Amy si collega accaldata e un po’ provata dai primi giorni di Ramadan, silenzia il cellulare. Sono tante le chiamate che arrivano a lei e alle altre avvocate e attiviste delle “Boutiques de Droits” – sportelli infomativi e legali che l’associazione ha aperto in molte aree di Dakar e anche in altre città senegalesi. Nata a Dakar da una famiglia poligama, unica femmina dei 4 figli avuti da sua madre, Amy Sakho non ha avuto un’infanzia semplice. Da piccola è stata a lungo malata e non ha potuto frequentare la scuola elementare in modo continuo. Grazie agli incoraggiamenti di sua nonna non si è arresa, ha ripreso gli studi e dalle medie è diventata un’alunna brillante. «Facevo parte del gruppo più studioso ed ero molto puntuale. Un amico mi ha chiamato “Amy sempre puntuale”, e sì sono molto puntuale, fa parte di me».

Quindi è stata un’altra donna, tua nonna, a incoraggiarti negli studi?

Mia nonna era analfabeta, non era andata a scuola, ma era una donna molto coraggiosa. Mi ha detto di non scoraggiarmi mai. Ho vissuto con una disabilità alla gamba che ho anche adesso e questo mi fa zoppicare un po’. L’incoraggiamento di mia nonna è stata fondamentale: mi spingeva ad andare a scuola sempre, a considerarmi uguale agli altri. Mi ha dato coraggio e mi ha permesso di diventare la prima della classe. Quando ho ottenuto il mio Bfm (brevetto fine media) sono andata al liceo e anche lì ho lottato per essere sempre la prima della classe. Allora il mio sogno era diventare giornalista ma poi un evento mi ha fatto cambiare idea.

Quale?

Nel nostro quartiere c’era una donna sposata con figli, come praticamente in tutti i quartieri di Dakar. Ma suo marito prese una seconda moglie e non venne quasi più a trovarla. Era la donna che mi faceva le treccine e quando veniva a casa mia una volta suo figlio le chiese “perché papà non viene più a trovarti? Ci ha abbandonato?”. Mi sono quindi chiesta perchè poteva succedere questo, perché, se uno ha sposato una seconda moglie, non va più a trovare la sua prima moglie? Ne ho parlato a un amico ed è stato allora che ho deciso che sarei diventata un’avvocata. Nella mia testa, significava risolvere tutti i problemi e le ingiustizie. Ho detto al mio amico “Studierò legge e così riuscirò a condannare quell’uomo”.

E sei contenta della scelta che hai fatto?

A dire il vero all’epoca non sapevo nemmeno cosa fosse il diritto. Quando ho iniziato a studiare mi sono resa conto che la legge non era quello che pensavo fosse. Ma mi è piaciuto e ho continuato fino alla laurea magistrale. In Senegal, dopo gli studi sei un avvocato ma dopo puoi scegliere se fare l’avvocato o il magistrato. Poi quando ho iniziato il master ho capito che si trattava di una professione diversa, avevo l’impressione che le persone volessero solo fare soldi, mentre io volevo avvicinarmi ai problemi delle persone. Ho visto che in ufficio prendevamo le cartelle dei casi ma non ci prendevamo troppo cura dello stato psicologico dei clienti. Quindi da lì mi sono detta che avrei capito come mettere a frutto le mie esperienze nei grandi studi professionali, dove ho lavorato 5 anni, e metterli al servizio delle persone.

E come ci sei riuscita?

Non avevo abbandonato del tutto la mia passione per il giornalismo e i media. Promuovevo delle trasmissioni radiofoniche online, trasmissioni su questioni legali dedicate alla diaspora, in wolof. Lì ho incontrato qualcuno dell’“Associazione delle Giuriste Senegalesi” che mi ha spinto a iscrivermi all’associazione e mettere a frutto il mio master in giurisprudenza. Quindi sono andata a vedere cosa faceva l’associazione e mi è piaciuta immediatamente. Si riusciva a parlare direttamente con le persone, a dargli consigli, c’era tanto calore umano! Quindi nel 2011 mi sono dimessa dallo studio professionale per andare a lavorare all’“Associazione delle Giuriste Senegalesi”.

Nel tuo percorso professionale hai incontrato degli ostacoli in quanto donna?

Vengo da una famiglia molto religiosa e le mie scelte personali e professionali non sono state facili. Volevo e voglio dimostrare che possiamo appartenere a una famiglia religiosa, ma anche fare il nostro lavoro correttamente, rispettando i valori della famiglia. Nonostante tutto devo dire che ho sempre avuto il sostegno di mio padre, di mia madre e di mia nonna.

E dal punto di vista personale, il tuo attivismo ti ha costretto a delle rinunce?

Quando ho iniziato a collaborare con l’Associazione delle Giuriste Senegalesi ho dovuto e voluto dimostrare che ero un’attivista. Mi svegliavo alle 4 del mattino per raggiungere la sede, mi riposavo un po’ fino alle 7 e poi non aspettavo l’apertura delle 8 ma iniziavo subito a lavorare. All’inizio il mio impegno era tutto volontariato per cui spesso dovevo chiedere aiuto a mia madre per cavarmela. Ho subito capito che Ajs è una grande organizzazione ma c’era bisogno di aumentare la visibilità e quindi ho lavorato per costruire relazioni e farci conoscere. Nel 2012 sono stato incaricata di aprire la “Boutique de Droits” di Pikine (alla periferia di Dakar ndr) con un progetto finanziato dalla cooperazione italiana. Nel frattempo ho affiancato il responsabile comunicazione e poi le sono subentrata nel ruolo. Erano gli anni in cui ci siamo battute per la difesa dell’aborto sicuro. Per la lotta all’aborto legalizzato eravamo originariamente un consorzio con 10 associazioni di donne, coordinate da Ajs. Sono stata molto coinvolta in questa azione avendo anche il ruolo di coordinatrice. Attualmente continuo a occuparmi dell’argomento, tuttora molto delicato e sensibile in Senegal. Praticamente ora, quando pensi all’aborto in Senegal, pensi a me. Molte persone non capiscono perché ho scelto questo argomento che alcuni considerano una rottura con l’Islam, ma abbiamo fatto ricerche approfondite sul rapporto tra l’Islam e ad esempio l’incesto e abbiamo visto e letto che ci sono stati alcuni anziani che hanno combattuto per questo prima di noi e quindi ci siamo convinte che dobbiamo continuare questa lotta, indipendentemente dallo stigma. Ci sono molte difficoltà e pregiudizi al riguardo, ma devi andare avanti e lasciare qualcosa alle generazioni future.

A proposito del tuo lavoro di avvocata, c’è stato un caso che hai seguito che ti ha particolarmente colpito?

Purtroppo sono numerosi i casi che mi hanno colpito. Come ti ho detto dal 2013 al 2017 sono stata la coordinatrice della “Boutique de Droits” nella periferia di Dakar. Ho dovuto per esempio assistere una bambina di 10 anni che è stata violentata e ha dato alla luce due gemelli. Era una bambina di una famiglia molto povera. È stata una gravidanza molto difficile perché aveva solo 10 anni. La persona che l’ha violentata è fuggita quindi non abbiamo potuto perseguirla dal punto di vista giudiziario. L’abbiamo seguita e sostenuta dal punto di vista economico, psicologico e sociale, ma anche dopo il parto ci sono state molte difficoltà perché la bambina non poteva allattare. Abbiamo denunciato il fatto sui media, ovviamente proteggendo l’identità, per dire che per questa bambina avremmo dovuto pianificare un aborto medico. Il secondo caso che mi ha colpito molto è stato quello di una donna che stava subendo violenza domestica. È stata picchiata tutto il tempo da suo marito e non ce la faceva più. È stata costretta ad andarsene, il marito ha sporto denuncia e lei è stata condannata per abbandono del tetto coniugale. La sentenza chiedeva che lei pagasse al marito 100.000 franchi altrimenti sarebbe stata incarcerata. Poiché non conosceva la legge, è venuta da noi un giorno dopo la scadenza. È venuta solo per chiedere aiuto per il divorzio, perché è quello che voleva. È stata l’associazione che ha contribuito a raccogliere i soldi necessari perché la signora non andasse in galera.

Oggi pensi che si siano fatti passi avanti per quanto riguarda i diritti delle donne in Senegal?

Sono un’avvocata e quando guardo alla legislazione, vedo dei passi avanti. Ad esempio nel 2010 abbiamo ottenuto la legge sulla parità, e nel 2013 quella sulla nazionalità (la donna senegalese può ora trasmettere la nazionalità al suo figlio) e poi recentemente abbiamo la legge che criminalizza lo stupro. Anche dal punto di vista politico ci sono segnali positivi. Ma il problema è l’attuazione di queste leggi. Certo è molto migliorata la rivendicazione dei propri diritti. Prima le donne non avevano il coraggio di parlare e sono rimaste in silenzio. Ma ora, anche attraverso gli sportelli, le associazioni, le donne hanno più fiducia e sanno che siamo lì per assisterle. La violenza è ormai tema discusso anche sui social network e ci sono ondate di solidarietà e reti tra donne proprio sui social. Tutto questo però deve essere legato all’aspetto giuridico perché finché non cambiano le leggi discriminatorie non si può andare lontano, anche con la solidarietà, quindi la legge deve essere rivista e resa conforme anche ai diritti umani.

Com’è stata vissuta la pandemia dalle donne in Senegal?

Penso che la pandemia dovrebbe insegnarci molte cose, prima di tutto dal punto di vista dell’assistenza legale, perché quando è arrivata la pandemia abbiamo chiuso lo sportello e istituito un numero verde antiviolenza. Ci siamo però trovate di fronte ad un problema: come dare supporto?Ad esempio, abbiamo avuto una donna vittima di violenza che voleva sporgere denuncia. Come prima cosa dovevamo andare al Tribunale, ma il Tribunale era chiuso, siamo andati dalla polizia ma la polizia era chiusa. Quindi la donna non sapeva dove andare. Ci sono state anche molte carenze nei trattamenti sanitari per le donne. Ma le donne hanno mostrato resilienza di fronte a questa pandemia. Sono riuscite spesso a trovare soluzioni creative per poter svolgere il loro lavoro e per provvedere alle loro famiglie. Purtroppo sono state anche molte le denunce di violenze domestiche che con la chiusura dei mercati, non potendo più commerciare per portare soldi per le spese quotidiane, hanno subito oltre alla violenza fisica anche quella economica, costrette a chiedere i soldi ai loro mariti “padroni”.

Alle giovani donne cosa diresti per incoraggiarle a difendere i propri diritti?

Non sono ancora sposata ma c’è una bambina che considero un po’ come una figlioccia. È la figlia di mio zio ed ha il mio nome. A lei e ad altre giovani bambine e ragazze, dico che devono farsi rispettare come esseri umani e far valere i propri diritti. Possono scegliere di lottare in vari ambiti utili per tutta la società. Non devono lasciare che siano altri ad occuparsi del loro futuro, ma devono impegnarsi in prima persona per i propri diritti. Io spesso dico che se oggi dicessimo a Martin Luther King che c’è stato un presidente degli Stati Uniti nero non ci crederebbe. Lui ha lottato anche se non ha raccolto in vita i frutti delle sue battaglie. Ma bisogna avere il coraggio di lottare, dobbiamo tutti impegnarci e partecipare allo sviluppo di questo Paese.

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