MILITANTE. RITRATTO DI UNA SOCIOLINGUISTA DA GIOVANE

VERA GHENO

di PAMELA CIONI

“Al momento faccio parte per me stessa. Come Dante.”

L’ hanno definita sociolinguista rock. Lei da un po’ di anni si dichiara socio-linguista militante e femminista intersezionale (“se non sapete cosa significa googlatelo”). Vera Gheno, ugro-fiorentina con origini venete da parte di padre, è da un po’ di tempo uno dei principali riferimenti culturali per chi si occupa di linguaggio inclusivo, femminista e della lotta alle discriminazioni e all’hate speech. Dopo il dirompente “Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole”, una raccolta di esperienze che ha collezionato da twitter manager dell’Accademia della Crusca (dal 2012 al 2019) occupandosi di questioni di linguaggio e genere, Vera è diventata una sorta di pasionaria del web su queste questioni e, ultimamente, tra le promotrici di una riflessione dell’utilizzo della schwa (un simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale spesso corrispondente a una vocale media-centrale ndr). Idolatrata e odiata sul web, in buona compagna di Michela Murgia e Laura Boldrini, per citare le due più famose. E chi lo avrebbe mai detto che con questo mestiere che sa di polvere e scartoffie, si sarebbe trasformato in attivismo duro e puro? “Non io, che proprio non volevo fare la linguista, e che poi, anche una volta capito che era quella la mia strada, non ho avuto per lungo tempo l’idea di poter essere utile agli altri e alla società. È qualcosa che mi è venuta molto tardi”. Ma facciamo un passo indietro per capire come siamo arrivate fino a qui.

Dunque la linguistica non è stata una vocazione e come ci è arrivata?

Non era una vocazione, ma una cosa di famiglia: mio padre è un filologo ugrofinnico, ha insegnato a lungo all’Università di Firenze e poi a Padova, dove è nato e dove ha finito la carriera. Era il migliore nel suo campo e io non volevo certo misurarmi con lui. Però ho fatto il Classico e sono sempre stata molto brava e secchiona. Poi all’Università ho deciso di fare ingegneria e mi sono iscritta alla specialità “Ambiente e territorio” con la vocazione di una Greta Thumberg ante litteram. Le cose non sono andate come volevo e dopo un anno ho capito che forse la mela non cade tanto lontana dall’albero. Mi sono quindi iscritta a Lettere a Firenze e mi sono fatalmente appassionata alla socio linguistica che rispetto alle altre linguistiche è orientata alle persone più che al sistema lingua, cioè studia cosa dice la lingua di noi, della nostra appartenenza a un gruppo. Giorgio Cardona, linguista, dice che con le parole noi esprimiamo chi siamo, chi vogliamo essere e chi pensiamo di essere.

Lei però si è specializzata sul linguaggio e social. Come è andata?

Forse Ingegneria non è stata così inutile: con la scusa di essere iscritta a quella Facoltà, nel ‘95 mi sono fatta regalare un computer e poco dopo avevo tra le prime connessioni web. Ho avuto la fortuna di anticipare i tempi e di essere curiosa, anche perché proprio online ho scoperto di poter parlare (scrivere) con persone che avevano le mie stesse passioni ma magari erano distanti. Le mie due tesi (di laurea e di dottorato) sono state entrambe dedicate alle comunità virtuali. La lingua di quelli che allora erano i newsgroup. Era il 2002 e ho dovuto lottare con la mia professoressa perché lo ritenesse argomento di tesi. Da allora il mondo è cambiato radicalmente. Io però su questo e da quel momento, ci ho di fatto costruito una carriera. E ora come allora in rete ci sto bene. Tra le varie cose ho anche insegnato informatica umanistica all’Università di Siena.

Ai profani appare quasi un ossimoro…

No! affatto, l’utilizzo dell’informatica per valutare l’uso di una parola o di un’espressione è fondamentale. Rende la linguistica più democratica se vogliamo. Non sono più i lessicografi a scegliere le parole che andranno in un vocabolario, ma sono le persone che scelgono di usare un vocabolo invece di un altro e grazie all’informatica questo utilizzo si può misurare.

A proposito di vocabolari, lei ha lavorato per 20 anni all’Accademia della Crusca, per poi uscirne nel 2019. Quale eredità da questa lunga esperienza e perché si è interrotta?

All’inizio facevo cose segretariali. Poi piano piano mi sono occupata di consulenza linguistica e poi nel 2012 la Crusca ha aperto i social e sono diventata twitter manager fino al 2019. Questo periodo ha inciso molto su quello che faccio e che sono ora: in quel momento infatti la presidente era Nicoletta Maraschio (prima donna presidente ndr) e con lei la visione di Cecilia Robustelli era mainstream. Poi è arrivata Boldrini e questa triade ha spinto molto sulla questione di genere binaria. Io twittavo e regolarmente mi prendevo delle shit storm pazzesche: già allora si gridava alla “dittatura del politicamente corretto”. Ma in quel contesto non potevo rispondere in modo incazzato. Allora ho fatto una cosa molto sadica: ho raccolto tutti questi tweet, poi ne ho parlato con editori di Effequ, che sono molto interessati alla questione, e loro mi hanno chiesto di farci un libro. Mi sono accorta di non sapere molto della questione di genere e ho studiato. Partivo da una posizione molto scettica. Anche io pensavo che in fondo “i problemi delle donne sono ben altri”. Sì il benaltrismo si annida in tutti noi… Quando è uscito il libro e in contemporanea sono uscita dalla Crusca. Non in modo casuale. Ho preferito la libertà di pensiero e di espressione. Ho fatto una scelta estrema ma di cui sono molto felice. Al momento faccio parte per me stessa. Come Dante.

In che modo il linguaggio può influire davvero sulla società? Migliorarla, soprattutto in ambito di genere?

Quando tu indichi qualcosa quello esiste, acquista visibilità. La rilevanza vera di definire un lavoro al femminile, vuol dire che ci abituiamo a vedere in un lavoro sia uomini che donne, indifferentemente. Altrimenti se continuiamo a chiamarci “direttori d’orchestra”, le direttrici saranno sempre panda rosa. Di fronte a professoressa, cassiera, infermiera, non ci poniamo il problema ma, chissà perché, ce lo poniamo per i posti apicali.

Perché introdurre questi concetti è così controverso? Perchè è stata così attaccata? Perché disturba parlare di linguaggio di genere? Non parliamo poi della schwa…

Il linguaggio è un atto identitario molto forte, le persone sono conservatrici rispetto alla lingua. Il cambiamento è vissuto come un attacco alla persona non una volontà di evoluzione. La questione non è linguistica: da questo punto di vista la cosa si risolve in un minuto perchè i nomi al femminile i nomina agentis, in latino c’erano già. La risposta dunque è paradossalmente conservatrice: “si è sempre fatto così”. La cosa si è complicata con l’ideologizzazione, cioè recentemente, negli ultimi 50, 60 anni: nominare le cose al femminile è diventato di sinistra, al maschile di destra. E quindi si è polarizzata questa questione. Inoltre c’è la non valutazione di un problema. Ognuno di noi valuta la realtà in base alla nostra esperienza. In ambito di genere è forte soprattutto negli uomini che minimizzano la questione, ma loro non sono mai stati invisibilizzati o sottorappresentati linguisticamente. Moltissime lingue hanno radici maschili. Non maschiliste ma maschili: perché gli uomini mandavano avanti il mondo, le donne facevano altro. Il maschio medio non vede il problema e purtroppo nemmeno la donna media perché il sistema patriarcale va bene per molte persone. Tutti hanno dei ruoli previsti e se non ti poni il problema, in questa scatola si sta bene. La schwa è un altro capitolo. Io, da linguista, registro solo che in alcuni ambienti è già usata. La questione è stata sollevata in modo becero, ma in qualche modo funzionale al dibattito, dalla rubrica di Matteo Feltri su La Stampa del 25 luglio 2020.

 È un problema sociale, culturale?

La nostra società fa fatica a concepire la devianza dal concetto di normalità e la donna è già a suo modo deviante. Il sistema è costruito, come dice Judith Butler, sull’immagine di un uomo bianco etero cisgender, di mezza età e io aggiungo non disabile e neurotipico. Figurina membro perfetto della nostra società. La donna è la prima devianza rispetto all’uomo. E poi tutti gli altri fattispecie di genere. Se pensi al genere come costrutto sociale e non come imprinting biologico si apre un ventaglio di discriminazione. Per questo il mio è un femminismo intersezionale: mi sembra assurdo lottare per i diritti delle donne e non per quelli di tutti gli altri.

Ed eccoci dunque alla necessità della militanza e l’importanza di schierarsi anche a rischio di diventare bersaglio degli hater…

La definizione di “linguistica militante” la devo al collega Federico Faloppa, perchè è lui che milita in modo molto attivo in questo settore. Ho capito anche grazie a lui che c’è un modo per non essere attaccati, ed è quello di NON schierarsi. Vuol dire anche non esprimersi mai nettamente contro qualcosa. E a lungo mi è andata bene così. Sono arrivata tardi all’attivismo, alla militanza. Ho deciso di restituire qualcosa perché credo di essere stata molto fortunata: ho studiato, ho viaggiato etc… Mi sento in debito e responsabile per un futuro e per una società che mi ha permesso di fare tante cose. Se il rischio è quello di essere vittima di hater, pazienza. Penso che sia parte del gioco e ormai ci ho fatto l’abitudine. Dopo di che sfrutto tutte le armi che i social ci danno: ho tutti i profili aperti, cerco di rispondere, non cadere nei tranelli e se proprio mi stanco, blocco. Non ho più tanta pazienza.

ODIARE O NON ODIARE?

COSPE da anni lavora con progetti in Italia e in Europa, per prevenire e contrastare i discorsi di odio online. Lo fa principalmente attraverso l’educazione e la sensibilizzazione: la fruizione consapevole dei media, la comunicazione non ostile, un approccio che miri a valorizzare le potenzialità della rete e la responsabilizzazione di ogni utente, sono
alcune delle strade che possono essere intraprese per rendere internet un posto migliore per tutti. COSPE lavora quindi sia nelle scuole, con gli insegnanti e con i ragazzi e le ragazze, sia con giornalisti e media.

Facebook
Twitter
LinkedIn
Pinterest