INDIPENDENTE. DISEGNO MA SONO UN ASCOLTATORE

L’arte è uno strumento e tutto quello che faccio è personale, non solo professionale.  L’arte è per me terapeutica.

di VALENTINA GERACI

Libero, indipendente ma attento al confronto. Convinto che l’arte oltre che bella debba essere anche terapeutica

Jamesboy è un artista libero, senza progetti ben definiti e senza alcuna regola fissa. Ha iniziato a dipingere tra le strade notturne di Lima, in Perù ancora adolescente, per poi arrivare in Italia intorno ai 15 anni. Oggi va ancora di getto. Non crea messaggi ma li scopre dopo, a volte li costruisce man mano e altre volte son gli altri a tirarli fuori dai suoi lavori. Ama però comunicare e per farlo bene sa che deve prima ascoltare. Gli piace osservare i paesaggi e le figure che si intrecciano, riportandoli attraverso una varietà di tecniche pittoriche e visive, ma con un unico minimo comune denominatore: il confronto. Lo scambio che crea con le persone attorno è fondamentale nel suo per- corso di crescita professionale e personale.

Come ti sei avvicinato al mondo dell’arte? Dipingo da quando avevo 13-14 anni. Ho iniziato a dipingere a Lima, in Perù, dove sono nato e cresciuto. Sono arrivato in Italia durante la mia adolescenza, avevo circa 15 anni. Lima è una città enorme sulla costa, una città umida e grigia ma con un suo forte fascino. Amavo girare di notte e osservare alcune situazioni che al tempo mi emozionavo ma che oggi considero difficili (liti, furti, incidenti). Vivevo in una zona industriale. Era caotica e selvaggia e mi piaceva. In quegli anni lavoravo con i miei nonni come meccanico, mattina e pomeriggio, e così mi ritrovavo ad andare in giro la notte. Amavo girare per chilometri a quell’ora e guardare il mondo attorno. Ho iniziato con il carbone e facevo solo graffiti, più precisamente solo le mie firme, firme ovunque in giro per la città. Mi piaceva, l’avevo visto fare al mio amico Tailor nel 2000. Mi ha fatto innamorare di quel gesto veloce che segnava l’appartenenza ad un posto, che permetteva di affermare la tua esistenza. Mi dava la libertà ma oggi posso dire che non avevo ancora una consapevolezza dell’arte.

Ti ricordi qualche episodio che ti ha aiutato in questo passaggio?

Posso dire che son sei anni che faccio arte, che dipingo e che lavoro con la consapevolezza di fare arte. Prima non avevo progetti o linee da seguire né sentivo il bisogno di partire da un’idea e seguirla nei dettagli. Facevo una cosa solo perché mi piaceva. Facevo di getto. Quando sono arrivato in Italia non parlavo italiano. Sono andato subito alle superiori ed è stato parecchio difficile per me. A queste difficoltà rispondevo disegnando perché solo così mi sentivo più tranquillo. Questa cosa mi ha aiutato sia a sbloccarmi che a capire e dare una forma a quello che avevo in mente. Mi piaceva fare scritte e lettere per i miei graffiti ma poi mi son reso conto che a li- vello estetico mancava qualcosa. Belli la lettera, la scritta e il colore ma una figura insieme alla scritta avrebbe avuto un impatto visivo molto più forte. Ho capito che dovevo studiare di più e applicarmi. Non è una cosa che nasce così dal nulla. Cominci e ti concentri su quello che devi fare. È un percorso tutto personale che si sviluppa con il confronto. Ho iniziato a spostarmi tra Palermo, Bologna e Firenze con altri artisti e dipingevo per strada. Grazie alle situazioni attorno a me prendo ispirazione. Mi ripetevo “Io faccio questo e voglio migliorare”. Per farlo osservavo i ragazzi che dipingevano con me e a cui chiedevo consigli. Questo è un processo creativo che ti permette di fare nuove cose e di acquisire nuove tecniche. Il confronto serve per capire, per crescere. Anche se son da sempre indipendente, questo mi è servito e mi serve tanto. Il comunicare e il rap- portarsi con altre persone ti arricchisce. L’arte è uno strumento e tutto quello che faccio è personale, non solo professionale. L’arte è per me terapeutica.

Riesci a trasmettere questa funzione dell’arte anche attraverso i tuoi lavori?

Mi piace parlare di “arte reciproca”. Da cinque anni dipingo con i ragazzi: pitture sperimentali e campiture nelle zone di San Gimignano, Radicondoli e Siena. Con la mia associazione, “Associazione culturale mixed media”, proponiamo progetti alle scuole, ai campi estivi e organizziamo manifestazioni e attività laboratoriali. In queste occasioni la scelta di far dipingere bambini e ragazzi nasce come via per comunicare e per esprimersi. Lavorando con loro, gli sblocchi qualcosa e li aiuti a capire che possono esprimersi anche in questo modo, anche attraverso i loro disegni o le loro pitture. Noi non puntiamo certo a farli diventare artisti!

Da cosa nasce l’idea dell’associazione?

Lavoravamo anche prima con i ragazzi. L’intenzione era di stare con loro, prenderli dalla stazione o in giro. Noi eravamo amici, volevamo fare progetti, lavoravamo per strada ma non riuscivamo mai ad ave- re fondi. Sapevamo cosa volevamo fare: laboratori, partecipare ai bandi e soprattutto arrivare ai ragazzi, anche ai più piccini. È qualcosa di meraviglioso. Con loro mi muovo timidamente  per poi  guardarli e osservando capisco molto. È un vero scambio. Stare con loro mi insegna a rap- portami meglio e a vedere le cose diversamente e ad ascoltare. Dietro ogni lavoro insieme, c’è sempre qualcosa. È terapeutico anche questo. Io per loro voglio essere un’alternativa.

A proposito di ragazzi, oggi lavori con i minori stranieri non accompagnati, beneficiari di alcuni progetti promossi dal Ginger zone, di Scandicci a Firenze. Cosa vuol dire per te lavorare con loro?

Con loro seguo un percorso specifico, partendo dal cartaceo e spostandomi poi sul digitale. Il cartaceo lo utilizzo per sbloccare i ragazzi. È molto più istintivo. Capisci cosa fanno: come prendono la matita, come fanno le linee o le sfumature. Capisci se son più timidi o se lavorano molto più di getto. Sono cose che se osservi con attenzione, ti insegnano come muoverti. A me piace molto osservare. Con loro mi soffermo sui gesti, sul come camminano o sul come ti guardano. Il linguaggio del corpo è molto potente.

E sul tuo lavoro al Ginger cosa ci dici?

Ho apprezzato molto questo posto, pensando che si trovi in un’area strategica, in mezzo a una piazza dove c’è il mercato e dalla quale passano tutti. Qui ho lavorato alle pareti esterne un po’ dappertutto, ma mi son concentrato soprattutto su sfondi, alberi, colori e il fiume a due livelli con le piccole barche. Anche la figura di un uomo che prende un pesce con lo sfondo dell’acqua in trasparenza l’ho fatta io. Il tema da cui partire era il viaggio, lo scambio e il contatto. A uno come me, che viaggia spesso all’interno della Toscana ammirando i paesaggi, questo lavoro non poteva che allettare. Mi son proposto di rappresentare i paesaggi aggiungendoli e incastrandomi con gli altri due artisti. Avevamo un’idea di base e l’abbiamo sviluppata pian piano comunicando. In questo muro, ascoltando le persone e parlando con loro, ho iniziato a dipingere le colline attorno a Scandicci, aggiungendo man mano elementi  come, ad esempio, il piccolo casolare che vedevo quando mi voltavo osservando in fondo alla collina.

Se volessimo mettere a confronto l’arte tra Perù e Italia, cosa si vede nel tuo essere artista?

Son due mondi diversi. È forse anche questione di attitudine. Da cinque anni, qui in Italia, ho sviluppato una forte passione per le tele ma faccio comunque tante cose di- verse. Con le tele dai voce al tuo mondo più riflessivo e ti prendi più tempo. Ma ancora di più mi piace il disegno e i tratti forti. Mi piacciono i ritratti sporchi. I colori li ho portati avanti pian piano. Del Perù ricordo colori molto accesi come quelli dei fiori, il magenta e il verde, e mi rappresentano, me li porto dietro, li ho visti da bambino. Si tratta in qualche modo di una cultura visuale che torna. È anche vero che dal 2012 fino al 2015, facevo figure solo in bianco e nero. Era molto più comodo e immediato e mi permetteva di capire i volumi dei corpi più facilmente. Oggi le figure sono una costante.

Il mondo della cultura ha subito un forte freno nel corso della pandemia. Tu come hai risposto?

Stavo sui colli pisani con la mia ragazza, in un borghetto molto turistico e allora parecchio isolato. Quel che mi è più manca- to è stato però il trovarsi e comunicare, lo scambiare idee ma anche l’impossibilità di dipingere un posto. Ho cercato di riadattarmi e ho iniziato a lavorare a casa, rispolverando progetti vecchi. In quei mesi mi ha stupito il bisogno compulsivo delle persone di fare acquisti e comprare opere online. Tanti mi hanno contattato e questo mi ha spinto poi a partecipare ad aste di beneficienza per i senzatetto e per rifugiati. Adesso vorrei tanto riprendere a muovermi, continuare ad andare in giro a dipingere con il mio camper, anche fuori dalla Toscana o direttamente fuori dall’Italia.

 

Ginger ZoneLaboratorio di creatività urbana” è uno spazio di ricerca attiva e creativa per la realizzazione di attività legate all’economia circolare e all’innovazione tecnologica. Nell’ambito del progetto “Inclusive Zone”, rivolto ai minori stranieri non accompagnati (msna), realizzato da COSPE e finanziato dal programma “Never Alone – per un domani possibile”, al Ginger si realizzano principalmente corsi professionalizzanti e laboratori artistici che offrono possibilità di stage formativi e tirocini, in collaborazione con associazioni che operano nel comune di Scandicci. Il Ginger nasce come un hub per l’elaborazione e la realizzazione di iniziative sociali, culturali e di avviamento al lavoro che vuole coinvolgere quella parte della società civile e produttiva già attenta ai temi dell’accoglienza e dell’inclusione e, allo stesso tempo, sollecitare e promuovere il coinvolgimento di tutti gli attori sociali ed economici del territorio. Il fine è far incontrare il patrimonio di competenze, risorse, capitale umano e sociale rappresentato dai giovani con le potenzialità del territorio, per lo sviluppo e la crescita reciproca. Al momento per favorire gli inserimenti lavorativi il Ginger Zone ha attive la ciclofficina e la stamperia sociale. La prima è un laboratorio di manutenzione, riparazione e realizzazione di biciclette che nasce anche come spazio di socialità per promuovere l’uso della bicicletta, la cultura dei pedali e l’integrazione. Alla stamperia, invece, si realizzano banner, vetrofanie e stampa su magliette grazie ai giovani protagonisti beneficiari dei progetti di inserimento lavorativo. Le pareti esterne del Ginger sono state dipinte da street artist, come Jamesboy, Enter/Exit, e altri, che hanno reso lo spazio riconoscibile e prezioso, regalando le loro opere alla città di Scandicci.

 

 

Foto copertina: Gabriele Masi

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