— Esiste un razzismo che è anche emarginazione, quasi segregazione fisica. Quello delle favelas brasiliane. Agglomerati che formano ormai delle vere e proprie città che oltre ad essere organizzate, o meglio auto organizzate rispetto alle istituzioni che le ignorano, sono anche luoghi di forte sperimentazione sociale e di partecipazione comunitaria. La discriminazione che ancora oggi accompagna gli abitanti delle favelas però è fortissima. Ce la racconta Gizele Martins, giornalista, attivista e abitante de La Marè
Sono nata nel complesso delle favelas della Maré, nella zona nord di Rio de Janeiro. La Maré, sorta nei primi anni ’40 e abitata da oltre 132 mila persone sparse in 16 agglomerati, è considerata una delle più grandi favelas della città di Rio. Oggi è tagliata da tre principali vie di accesso a Rio: Avenida Brasil, Linha Vermelha e Linha Amarela. I primi abitanti arrivarono dal Nordest proprio per la costruzione della Avenida Brasil, e iniziarono a costruire le loro case ai margini del viale: all’inizio costruirono palafitte e, a poco a poco, dettero vita alle attuali 16 favelas. Oggi la popolazione della Maré è formata dai primi abitanti nordestini, ma anche da popolazione nera, indigena e rifugiata. L’intera storia della Maré è segnata dalla sua organizzazione interna: corsi comunitari di preparazione ai test di ammissione all’università, radio comunitarie, riunioni nelle piazze pubbliche per l’arrivo dei serbatoi d’acqua, illuminazione, commercio locale, trasporto alternativo, museo comunitario… Sono solo alcuni esempi di una grande organizzazione comunitaria che contraddistingue le favelas, infatti, questa non è solo la storia della Maré ma di qualsiasi altra favela intorno a Rio e in tutto il paese: dietro a questa organizzazione si nasconde però una grande lotta per la sopravvivenza, per i diritti, per la vita. La storia delle favelas in Brasile dimostra infatti che esse nascono come alternativa alla mancanza del diritto ad una abitazione e sorgono principalmente vicino ai luoghi di lavoro delle persone che vi si sono stabilite. Ma le autorità pubbliche non hanno mai trattato la favela come una soluzione alla povertà, né hanno mai preso in carico le condizioni di miseria e deprivazione che la popolazione delle favelas subisce ancora, ogni giorno. In questi quasi 100 anni di favelas nel paese, infatti, mai le autorità e le istituzioni pubbliche hanno pensato alle persone che vivono qui come portatori di diritti e nemmeno degni di attenzione, al contrario: i diritti fondamentali delle persone che vivono nelle favelas sono calpestati forse perché siamo visti come un problema e non siamo riconosciuti come parte della città. Le condizioni di miseria in cui i favelados versano, vengono attribuite alle persone stesse che vi abitano, come ne fossero i responsabili: siamo colpevoli di vivere in un luogo precario, siamo discriminati per il nostro modo di parlare, siamo criminalizzati anche per il genere musicale che fa parte della cultura delle favelas, il funk. Le nostre case vengono abbattute o rimosse, la polizia razzista uccide, senza tanti complimenti, i giovani neri delle nostre strade. Oltre a queste pratiche razziste perpetrate dalle autorità governative, abbiamo anche i media convenzionali che tutti i giorni alimentano la criminalizzazione dei nostri corpi, della nostra terra, della nostra storia. I media hanno creato un’opinione diffusa tra la popolazione brasiliana, e non solo, avversa ai favelados: ci descrivono sempre come criminali, invasori, violenti, sporchi, vagabondi, tra tanti altri stereotipi che giornalmente cerchiamo di combattere attraverso le nostre azioni comunitarie, identitarie, collettive. Il resto della società assiste a tutto questo da un divano, e ci conosce solo attraverso le dure parole che dipingono l’immagine della nostra inferiorità. Questa società che non fa niente, ma accetta, rafforza l’idea che, sì, loro meritano la città, mentre noi, favelados e neri, no. Ogni giorno ci chiediamo perché non ci accettano nelle università, nelle scuole, nei posti di lavoro, sui trasporti pubblici: forse esistono luoghi destinati ai corpi neri e poveri in questa società che mette in discussione anche la nostra stessa vita? Non dovremmo avere una società che ci accoglie tutti? Ma no, purtroppo stiamo parlando di una società che fondata sul razzismo, sui nostri corpi neri, sui corpi poveri stigmatizzati 500 anni fa come mano d’opera, prima schiavizzata, oggi precarizzata. Per costruire una società differente, nella quale tutti possano godere del rispettodei diritti, è invece necessario pensare la favela come parte della città. È necessario che la favela, la sua azione comunitaria e collettiva, sia riconosciuta come costruttrice della città: sappiamo bene che la città non esisterebbe se non fosse per il nostro lavoro, giorno dopo giorno. Vogliamo garanzie di diritti ed il principale è il diritto alla vita. Abbiamo bisogno che le nostre religioni afro, la nostra cultura, il nostro modo di essere, i nostri modi di dire, vestiti, capelli, case, siano rispettati. Noi siamo parte della città, noi esistiamo ed è nostro diritto vivere ed essere!
di Gizele Martin
L’autrice – Gizele Martins
Abitante e comunicatrice comunitaria della Maré da oltre 20 anni, Gizele Martins è laureata in Educazione, Cultura e Comunicazione nelle Periferie Urbane ed in Giornalismo. Attualmente è assessora nella Commissione di Diritti Umani e Cittadinanza dell´Assemblea Legislativa dello Stato di Rio de Janeiro e giornalista del Sindacato dell´Istituto Federale di Rio de Janeiro, Gizele ha lavorato per oltre dieci anni in media alternativi nella Maré, ad esempio al giornale “O Cidadão”. Tra i tanti progetti comunitari che porta avanti, organizza corsi di comunicazione e conferenze comunitarie per parlare di diritti e delle disuguaglianze di genere e razziali nelle favelas.