“Uniti si vince”: la lunga lotta delle comunità andine

— Palmeto delle Ande, Chevron Texaco, Eni: sono le aziende che stanno straziando il territorio ecuadoriano. Ma le persone oggi si organizzano e si ribellano.

Il rio Canandè è gonfio d’acqua, la canoa è pronta e i cavalli sanno nuotare. Donna Julia sale a bordo e insieme a suo cognato e a due piccoli nipoti, raggiunge l’altra sponda.
Ha un viso mite un bel sorriso e sulle spalle una cesta per raccogliere il cacao. Si incammina nella foresta con passo svelto. È difficile starle dietro. Due ore di questo passo per arrivare nella tenuta Dos Hermanas, 23 ettari nella provincia di Esmeraldas che Julia coltiva con la sua famiglia. 
“Il cacao è la nostra vita: ci consente di guadagnare, di avere da mangiare, di tenerci in salute e di mandare i bambini a scuola. È difficile andare avanti, ma questa è la nostra terra e non la  lasceremo per nulla al mondo.” Donna Julia ci porta dentro la giungla fino a farci scoprire un pezzo di paradiso: una cascata in mezzo al verde degli alberi, al rosso della terra, al nero della roccia bagnata, al bianco dei raggi di sole che filtrano in mezzo alle foglie.
Allarga le braccia e dice: “è questo che vogliamo difendere coltivando il nostro cacao e proteggendolo da chi pensa solo al profitto. Qui intorno c’è il Palmeto delle Ande, una azienda enorme che produce olio di palma e si sta accaparrando le nostre terre”. Donna Julia è determinata a proteggere la sua terra ed il futuro dei suoi nipoti. “Noi ci dedichiamo alla foresta. Coltiviamo dove è più semplice, ma ci dedichiamo anche alla cura della foresta che è la nostra vita. A loro questo non interessa, interessa solo il profitto.” Il profitto, è questo il problema. Il fantasma in nome del quale si devasta il polmone del pianeta e si cerca di annientare i piccoli produttori. Per difendersi hanno deciso di associarsi. Un modo per riuscire ad imporre un prezzo accettabile del loro prodotto, che gli consenta di sopravvivere. Hanno fondato il Cocpe, di cui donna Julia è vicepresidente. È una delle associazioni di contadini sostenuta da COSPE. L’associazione consente a tutti di avere il miglior guadagno possibile.
“L’associazionismo è essenziale perché consente a piccoli produttori di piccole comunità di unirsi per potere affrontare autonomamente la commercializzazione del prodotto e avere un prezzo più realistico”, ci spiega Byron Casignia di COSPE Ecuador. L’unione fa la forza. Sembra banale, ma invece funziona. Serve anche a proteggersi meglio, perché difendere l’ambiente è un’attività pericolosa. Soprattutto in Sud America. Josè Tendetza diceva che “la lotta si vince se si è tutti uniti”. Josè era un leader indigeno shuar, si opponeva alle attività estrattive di un’impresa mineraria cinese, il progetto Mirador, approvato dal governo ecuadoriano nel sud dell’Ecuador al confine con il Perù. L’hanno ammazzato nel 2014. Il corpo ritrovato in un fiume, con segni di tortura. Josè è uno di quegli attivisti ambientali che muoiono ogni due giorni nel mondo, diciassette ogni mese.
Nel solo 2017 Global Witness ne ha contati 207. Una strage silenziosa che si consuma nell’indifferenza del mondo. Centinaia uccisi, migliaia quelli minacciati, come Salomé Aranda che si batte per fermare l’installazione di un pozzo petrolifero a Moretecocha: la sua casa è stata attaccata da un gruppo armato, è stata minacciata assieme alla sua famiglia. Salomé è una leader Kichwa, il pozzo petrolifero invece è italiano, dell’Eni, il gigante petrolifero di casa nostra che estrae petrolio da 28 anni in Amazzonia e ora vuole estendere l’attività a nuovi campi, scavando nuovi pozzi. È una storia già vista, e noi la ritroviamo nei tamburi degli indios che risuonano sotto la Corte Costituzionale a Quito, mentre aspettano una sentenza storica.
Il processo va avanti da 25 anni: popolazioni indigene contro il colosso petrolifero americano Chevron Texaco accusato, dal 1964 a oggi, di aver sversato 60 miliardi di tonnellate di acqua sporca di residui di petrolio nei fiumi dell’Amazzonia ecuadoriana, inquinando acqua, terra, aria, uccidendo animali e uomini decimati dal cancro, aumentato in maniera esponenziale.
Il più grande disastro ambientale del Sud America, che hanno chiamato la Chernobyl dell’Amazzonia. “Vi sono stati vari danni ambientali molto grandi nel mondo: la Exxon, in Alaska, il Golfo del Messico, il caso Prestige, il caso Erik. Ma la grande differenza è che nel caso della Chevron in Ecuador la cosa fu intenzionale, perché la Chevron sapeva cosa stava facendo”. Pablo Fajardo Mendoza è l’avvocato degli indios dell’area di Lago Agrio, sei comunità, trentamila persone. Sono la parte lesa che si è riunita in associazione e ha citato in giudizio la Chevron Texaco. “Mi ricordo che appena arrivato a Sucumbios, la prima cosa che mi colpì è che scendendo dall’autobus, praticamente mettevi il piede nel petrolio. La Chevron faceva credere alla popolazione che il petrolio fosse una medicina. Così alcune persone se lo mettevano sul corpo pensando di curarsi”.
La sentenza arriva dopo un mese di camera di consiglio: Chevron Texaco è condannata a risarcire gli indios per nove miliardi e mezzo di dollari, ma l’entusiasmo dura appena 40 giorni. Fino a quando la corte europea di arbitrato ordina all’Ecuador di annullare la sentenza della Corte Costituzionale perché “i diritti costituzionali della Chevron sarebbero stati violati” recita paradossalmente la corte europea. Una doccia fredda che rimette tutto in gioco e rischia di costringere i popoli indigeni ad un nuovo braccio di ferro nelle aule di giustizia, mentre quelle terre violate ed inquinate sono ancora lì a respirare catrame. Pablo ha le idee molto chiare su quanto è avvenuto: “La giustizia oggi non esiste quando l’imputato è una grande società e la vittima è un
popolo indigeno. Per questo chiediamo al mondo di dare vita ad una normativa globale che regolamenti i reati commessi dalle multinazionali e che consenta a chi è stato vittima di questi reati di potere avere accesso alla giustizia.” In questa porzione di mondo che è patrimonio naturale del pianeta, la giustizia è un concetto astratto.
Lo è anche per i piccoli produttori di caffè della valle del Rio Intag, un piccolo paradiso di biodiversità messo in pericolo dalle miniere di rame. C’è una battaglia che va avanti da venti anni. La popolazione locale si è opposta con grande determinazione all’apertura delle miniere che inquinano le falde acquifere. Anche qui i piccoli produttori si sono riuniti in associazione per riuscire a costruire un argine contro la prepotenza delle grandi compagnie.
Anche qui con il sostegno e la supervisione di COSPE che lavora insieme a loro per ottenere il miglior risultato e la migliore qualità di caffè. Ma l’incubo scende dalla montagna con l’acqua sporca di residui di rame dalle prime perforazioni che stanno iniziando solo ora che il governo ecuadoriano ha acquisito il progetto delle miniere. I piccoli coltivatori hanno una vita difficile in questa porzione di mondo che peraltro ha la costituzione più avanzata al mondo in tema ambientale: riconosce i diritti della natura e dell’acqua come diritto inalienabile. La sola opportunità si chiama resistenza. È quello che fanno, fronte comune contro quello che Pablo Fajardo Mendoza chiama il “sistema di impunità globale delle società. Questo è il sistema che bisogna rompere. È lì che bisogna lottare per fare in modo che queste non si ripetano più”.

di Valerio Cataldi
Giornalista Rai

IL PROGETTO – CACAO CORRETTO
COSPE lavora in Ecuador con il progetto “Cacao corretto”: il progetto interviene nelle filiere del cacao e del caffè, nelle quali prevale ancora la piccola produzione, attraverso il miglioramento della produzione e della commercializzazione e valorizzando la produzione biologica e locale. I beneficiari sono 3.000 piccoli produttori e produttrici delle due filiere. L’associazione di cafficoltori nostra partner, Aacri, è stata fin dagli esordi in prima linea nella difesa del territorio dall’estrazione mineraria.

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